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Cultura, usanze e credenze dei popoli

LA MODA OSE’ E LE SUE IMPLICAZIONI

Da una discussione con varie signore è emerso che nessuna di esse aveva mai fatto caso al fatto che il comportamento femminile, specialmente nella età adolescenziale, pur con modalità diverse, si rifà ai comportamenti che favoriscono la riproduzione delle spece in ambito vegetale ed animale.

 


Pur se fissati nel freddo pallore di una statua rinascimentale esposta al Museo fiorentino del Barge

llo, i morbidi lineamenti di questa immagine di adolescente confermano la mia convinzione sul fatto, che un corpo femminile ben proporzionato costituisca la più meravigliosa opera d’arte della Natura, tanto che talvolta, alla vista di una bella ragazza, mi viene spontaneo rendere lode a Dio per lo splendore con cui ha voluto abbellire il Creato(1).

Ma come viene gestita tanta bellezza dalle dirette interessate?

A giudicare dalla sempre maggiore spregiudicatezza della moda, a cui spece le adolescenti sembrano adeguarsi spensierate, l’impressione non può che essere negativa o, quanto meno, preoccupata per la loro fragile esistenza minacciata dai facili fraintendimenti che certi atteggiamenti alimentano.

Per capirci meglio, pensiamo ai bellissimi fiori, a cui spesso la letteratura accosta l’immagine di una fanciulla: pur costituendo l’organo preposto alla riproduzione della pianta a cui appartiene, ciascuno di quei fiori non ha volontà propria, cosicché non può esprimere preferenze su chi dovrebbe fruire del suo nettare, tanto che sono numerose le spece di insetti che, attratte dal suo profumo, di quello stesso fiore approfittano per la sua generosa disponibilità(2).

Qualcosa di simile avviene anche fra gli animali per garantire la continuazione della loro spece: quando infatti sono in calore, le femmine di quegli animali emanano un particolare forte odore che, diffondendosi anche a grande distanza, eccita la sessualità maschile segnalando la loro disponibilità all’accoppiamento.

Da parte loro, i maschi rispondono prontamente all’invito e, lottando ferocemente fra di loro per assicurarsi il diritto esclusivo all’accoppiamento, si uniscono alle femmine spesso in modo brutale (vedi foto a lato), senza dare loro la possibilità di scegliersi il compagno ideale(3) per poi, presi da altre prospettive di conquista, abbandonarle e condannarle a gestire da sole la maternità.

Se ciò è quanto avviene in genere tra gli erbivori, fra i carnivori le cose vanno anche peggio poiché, dopo il parto, le femmine debbono addirittura sobbarcarsi la pericolosa incombenza di difendere i cuccioli dalla ferocia degli altri maschi, i quali sono spietatamente desiderosi di liberarle dagli impegni materni per renderle nuovamente disponibili.

Nel genere umano le cose non vanno molto meglio: non potendo rispondere con l’emanazione di particolari odori inebrianti per soddisfare i naturali appetiti sessuali tipici dell’adolescenza, sempre più spesso le donne, in particolare le ragazze, si lasciano influenzare dalla moda che, alla perenne ricerca di novità per incrementare i propri affari, propone tipi di abbigliamento sempre più spinti (osé è il termine corrente), i quali inducono le povere sprovvedute ad ostentare porzioni del loro corpo sempre più estese ed intime.

Dunque, rapportata a quanto avviene negli altri regni della Natura, quella ostentazione corrisponde ai segnali emessi dalle femmine degli animali per comunicare la loro disponibilità all’accoppiamento!

Ma le nostre ragazze sono coscienti di tale corrispondenza? In altre parole, le adolescenti così attente ai dettami della moda si rendono conto dei fraintendimenti a cui potrebbero dare luogo le loro esibizioni?

Sicuramente, nella stragrande maggioranza di esse, le fanciulle non cercano l’incontro casuale, che consenta loro di sperimentare fugacemente le gioie del sesso, ma sognano romanticamente di trovare, grazie alle loro generose esibizioni, il compagno ideale col quale trascorrere poi felicemente il resto della loro esistenza(4).

Ma come vedono la cosa i tanti maschi, giovani e meno giovani, che sono alla ricerca non di gravosi impegni per la vita, ma bramano soltanto di dare libero sfogo alle impellenti pulsioni della Natura?

Non passa settimana ormai, senza che giunga notizia di violenze su donne, spesso giovanissime, che non si rendevano conto dei guai a cui si esponevano a causa dei fraintendimenti generati dal loro disinibito comportamento(5). Se fossero state coscienti dei meccanismi con cui la Natura favorisce la continuazione delle specie, forse avrebbero saputo gestire con maggiore razionalità ed oculatezza la loro immagine.

Dunque, quale potrebbe essere la soluzione a tanti inconvenienti? Non certo l’adozione, da parte delle donne, dei castigatissimi costumi islamici ma, oltre ad una doverosa e profonda revisione delle regole di comportamento da parte dei maschi e delle loro opinioni sul genere femminile(6), la soluzione potrebbe venire dalla corretta informazione sul reale significato dei segnali che le ragazze (ma ormai anche le sempre più numerose donne adulte) diffondono nell’ambiente a mezzo del loro comportamento(7).

Infine, non farebbe male la ferma risoluzione, da parte delle stesse donne, di riservare le loro grazie soltanto alla persona giusta, quella con cui godere dei doni della Natura solo nell’intimità di una sana e duratura relazione di coppia, specialmente se detta relazione nasce con la benedizione dell’Autore delle meraviglie della Natura(8).

Quanto tutto ciò sia vero, posso testimoniarlo di persona. Infatti, fu molti anni fa che potei notare per la prima volta la donna che sarebbe diventata la mia sposa: si era d’inverno e per il freddo intenso lei indossava un lungo cappotto color cammello tutto abbottonato(9), cosicché della sua persona si notava solo il capo, ornato da una capigliatura fluente raccolta sul retro, ed il suo portamento…

Davvero non era molto, ma tuttavia fu sufficente a conquistarmi, tanto che oggi, a distanza di tutti gli anni trascorsi, io sono ancora felicemente innamorato della mia sposa!

 

Gianni Bassi – settembre 2019

 

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NB:  Le immagini sono tratte dai siti Internet sul Museo del Bargello, sulla sessualità dei felini e sulla moda osé.


[1] Se c’è una cosa che mi dà veramente fastidio, è l’espressione che, alla vista di una bella ragazza, si legge su certe facce che lasciano trasparire chiaramente i turpi pensieri che ne popolano la mente.

[2]In realtà, ci sono addirittura degli uccellini, i colibrì, che approfittano di quella disponibilità, tuttavia, esistono anche dei fiori, la cui particolare conformazione consente l’impollinazione soltanto a determinate spece di insetti e solo a quelle, ma anche in tal caso quei fiori non possono scegliere l’individuo che più aggrada loro.

[3]Ovviamente, gli animali non badano all’aspetto più o meno gradevole degli individui ma pensano solo a soddisfare gli appetiti indotti dalla Natura.

[4]In genere, le donne adottano la moda più per piacere a sè stesse che agli altri, senza pensare però, che i dettami della moda sono il frutto di elaborati studi (finalizzati al profitto) sulla psicologia femminile, la quale è profondamente condizionata dagli istinti dettati dalla Natura per garantire la continuazione della spece.

[5] Avviene sovente che le vittime di quelle violenze dicano poi, che esse non sapevano e non volevano, ed è appunto il loro disperato diniego che eccita la violenza di taluni depravati. Questi, infatti, lusingati dall’apparente disponibilità delle donne, vedendo poi rifiutati i loro approcci si sentono presi in giro e diventano cattivi.

[6] Va detto che in genere i maschi, spece se giovanissimi e ancora condizionati dal rapporto affettivo con la madre, sono assai timidi di fronte a certi atteggiamenti femminili, ma poi si scaltriscono alla scuola dei sempre più diffusi e spinti insegnamenti proposti dal mondo degli spettacoli.

[7] In realtà, le donne dispongono di ben altri mezzi di seduzione, che la provvida Natura umana offre loro: l’espressione del volto, lo sguardo, il tono della voce, il portamento, e mille altri particolari che costituiscono l’essenza del fascino femminile e che fanno di ciascuna donna una persona unica e, a modo suo, attraente non per tutti i maschi ma solo per quello giusto.

[8]A mio avviso, il fatto di ambire a quella benedizione significa essere già sulla via verso la felicità vera.

[9]Dunque nessuna concessione alla curiosità morbosa.

SCIENZIATI O… STUDIOSI?

È una storia risaputa quella che si riferisce agli attacchi spesso feroci sferrati da certi Scienziati contro i Liberi Pensatori che dissentono dalle loro teorie.
Quando un Personaggio affermato vede le proprie teorie minacciate dalle nuove idee di qualcun altro, accade spesso che, giustificate o no che siano le obiezioni del Dissidente, il Grand’uomo voglia stroncarle perché dalla sopravvivenza delle proprie teorie dipende la salvaguardia di una montagna di interessi: la fama, la carriera, i titoli che ne derivano, il prestigio degli Istituti coinvolti e, non ultimo, il fatto che, se quelle teorie vengono superate, va in fumo la preparazione di generazioni di Studenti che su quelle stanno costruendo o, peggio, hanno già costruito la loro formazione… Generazioni che, non riconoscendo poi la dura realtà, continuano ad operare come se le teorie su cui si sono formate conservassero intatta la loro validità, con quali vantaggi per il progresso della Scienza è facile immaginarlo.
E talvolta è così che avviene anche in pubblicazioni recentissime, quando vi si trovano tracce di quelle teorie obsolete, le quali in tal modo condizionano negativamente gli studi delle nuove generazioni (1).
Ma perché tutto questo?
A mio avviso, la risposta risiede nei reali significati di due diverse parole riferite agli Uomini di Scienza, le quali però, nel linguaggio corrente vengono confuse ed usate indifferentemente: Scienziato e Studioso.
Scienziato è una parola grossa, che sembra accrescere l’importanza di colui che la associa alla sua condizione di persona erudita…   Essa, infatti, sembra derivare dal verbo latino scire(2) (=sapere) il cui participio passato, tuttavia, non è scientiatum ma scitum, cioè saputo, parola coperta da un velo di negatività solo attenuato dal suo diminutivo saputello.
Il termine Scienziato dunque, non ha un ascendente verbale da cui esso possa derivare, tanto che il suo corrispondente latino è invece “doctus” (dotto, esperto); inoltre, esso presenta la desinenza in “ato” che è tipica del participio passato dei verbi della prima declinazione (come mandato da mandare), participio che indica dunque un evento che affonda le sue radici nel passato e il cui significato esprime sovente un’idea di passività, come in fortunato (favorito dalla fortuna), informato (che ha ricevuto informazioni), sfamato (che è stato nutrito), aiutato (che ha ricevuto aiuto) e così via, tutte parole che si riferiscono a individui che sono stati oggetto di qualche azione, cioè che hanno ricevuto qualcosa da altri, qualcosa che nel caso del nostro Grand’uomo sarebbe la Scienza.
Dunque, lo Scienziato è un Individuo Passivo istruito da altri, pertanto, egli può essere paragonato agli individui passivi riportati negli esempi descritti, poiché l’istruzione scientifica di cui si dice portatore gli viene da altri, istruzione che egli è (forse) in grado di elargire a sua volta, ma alla quale non aggiunge nulla di suo, proprio come avveniva da parte di due miei Insegnanti delle superiori(3), dai quali hanno poi imparato alcuni miei Compagni di scuola secchioni, che conoscevano tutto a memoria ma poi, al lato pratico, nella professione non sapevano usare le nozioni apprese.
Assai diverso è invece il caso del termine Studioso, il quale esprime l’attualità degli Studi in cui si impegna la Persona a cui si riferisce: lo Studioso, infatti, non è Uno che si accontenta di ciò che ha imparato a memoria negli anni di scuola, ma continua ad allargare e approfondire la propria Conoscenza oltre i limiti imposti dalla sua preparazione scolastica e dalla buona volontà degli insegnanti(4); limiti che egli ama superare per sentirsi libero di ricercare al fine di comprendere attivamente, mettendo poi a frutto la sua nuova Conoscenza per produrre, se possibile, il vero Progresso della Scienza.
È per questi motivi che talvolta mi viene un po’ da sorridere quando sento di un Tizio che viene presentato come Scienziato… proprio come avvenne tempo fa, quando un Grand’uomo, presentato in una conferenza con tale titolo, pubblicizzava un suo libro su storie di terremoti, di scienziati e di ciarlatani(5) ma poi, sollecitato da domande precise su determinati gravi avvenimenti, dei quali egli era stato protagonista con altri, girava intorno all’argomento con un fiume di parole senza spiegare perché la sentenza che li aveva assolti sia stata “perché i terremoti non si possono prevedere” e non “per non aver commesso il fatto”(6).
Un paio di fatti simili, ma alla rovescia, mi sono capitati anni fa al termine di due mie conferenze: sentendomi dire da qualcuno fra i presenti (che vantava il suo titolo universitario) che lui non era d’accordo per niente con quello che avevo detto, chiedevo incuriosito quali fossero gli argomenti sui quali dissentiva… ebbene, invariabilmente quei Dissenzienti ribadivano il loro rifiuto totale senza però saperlo motivare, e la cosa, che suscitava qualche mormorio di disapprovazione tra i Presenti, mi ricordava divertito i rapporti a volte agitati con i Secchioni ai tempi di scuola.
Con quel tipo di Persone, infatti, non c’è modo di intavolare un confronto concreto ma si rischia solo di avviare una diatriba senza costrutto.
In generale però, la maggior parte dei miei Ascoltatori non pronunciano parola alla fine delle mie conferenze, e questo, immagino, forse per timore di dire cose fuori luogo, e tuttavia c’è sempre qualche Coraggioso che dimostra interesse per la materia con domande bene azzeccate e talvolta con obiezioni motivate, ed allora per me è una grande soddisfazione avviare il dialogo, spece vedendo che poi, spesso vi partecipano anche alcuni di coloro che, timidi, in precedenza avevano taciuto.
Si realizza in tal modo, con soddisfazione di tutti, il programma della mia attività di divulgazione ispirata al motto che costituisce il titolo di questo Sito Internet: “DISCUTIAMO LA SCIENZA”.

GIanni Bassi – 22/07/2017


[1] Anziché presentare quelle idee come realtà assolute, basterebbe presentarle come “ipotesi” che richiedono l’uso del condizionale.

[2] Dal dizionario latino vediamo la declinazione: scio, -is, scivi, scitum, scire = sapere.

[3] Dico “forse” perché non tutti sono all’altezza del meraviglioso compito di istruire. Ricordo infatti i miei Insegnanti di due materie affascinanti, la Chimica e la Mineralogia: il primo non ha mai condotto noi Alunni nel favoloso laboratorio di chimica, mentre la seconda non ci ha mai mostrato nemmeno un campione di minerale, ma entrambi si limitavano a dire: “studiate dalla tal pagina all’altra”.

[4] Talvolta (è successo anche a me) taluni Insegnanti si irritano per l’insaziabile curiosità di qualche Allievo e tendono a scoraggiarlo. A proposito di quei limiti, poi, è interessante ciò che scriveva, negli anni settanta, Graziano Cavallini nel suo celebre trattato dall’eloquente titolo “LA FABBRICA DEL DEFICENTE”, nella serie Scienze dell’educazione della Emme Edizioni.

[5]Termine quest’ultimo vigliaccamente offensivo, col quale il Relatore dipingeva i non Addetti ai lavori che osano intromettersi in campi che non sono di loro competenza.

[6] È assai probabile che se lui ed i suoi Soci non avessero fatto zittire  il Tecnico che, secondo loro seminava il panico asserendo di essere in grado di prevedere le scosse più pericolose grazie alle attrezzature dei laboratori del Gran Sasso, forse le decine di persone morte confidando nelle loro tranquillizzanti asserzioni sarebbero ancora vive.

Quel che gl’italiani dovrebbero sapere in fatto di storia e di bandiere

Da tempo si fa un gran parlare di anniversari patriottici e del tricolore…
Ma sono discorsi seri?

Premessa 

Bandiera tricolore (bianco, rosso e verde) della RC, la Repubblica Cispadana  costituitasi in epoca napoleonica dal gennaio al luglio del 797). (da L’Alpino n. 2-2011, rivista dell’ANA, l’Associazione Nazionale Alpini )

Bandiera tricolore (bianco, rosso e verde) della RC, la Repubblica Cispadana costituitasi in epoca napoleonica dal gennaio al luglio del 797).
(da L’Alpino n. 2-2011, rivista dell’ANA, l’Associazione Nazionale Alpini )

Dire cose totalmente diverse o contrarie alla realtà costituisce una grave e inaccettabile menzogna… ma anche le “mezze verità” sono da condannare, poiché ad esse corrisponde sempre, inevitabilmente una “mezza menzogna”… ed anche questa è una cosa inaccettabile!
Ciò non ostante, la “mezza verità” è il sotterfugio più usato dai politicanti per fare apparire credibili le loro menzogne, in modo da carpire la fiducia del popolo, il cui consenso permette poi a loro di agire a proprio arbitrio nella gestione della cosa pubblica.
Sola difesa per i Cittadini è la ricerca della verità, ricerca però di difficile attuazione per le difficoltà nel reperimento di documentazione veramente obiettiva e perché i profondi condizionamenti culturali, subiti dal Cittadino in età scolare, lo fanno sicuro di saperne abbastanza e, di conseguenza, di non avere bisogno di ulteriori approfondimenti.
Un chiaro esempio della reale portata dei condizionamenti subiti dal Cittadino in età scolare è dato dal confronto fra il “poco” che riportano i testi scolastici di storia patria riguardo agli avvenimenti dell’epopea risorgimentale nella Regione Veneta ed il “molto” che tacciono, una significativa parte del quale è riportato fortunatamente nelle opere di alcuni rari autori come, ad esempio, nel XXIX volume della Storia d’Italia di Montanelli e Gervaso e nel ponderoso volume su Il Risorgimento Italiano di Cesare Giardini.(1)
Altre situazioni forse volutamente equivoche sono, come vedremo, quelle riguardanti le “celebrazioni per il centocinquantesimo anniversario dell’unità d’Italia” e “la storia della bandiera italiana”.

Equivoci e mezze verità

Come si è detto, una situazione alquanto equivoca, frutto certo di scarsa informazione e di disattenzione verso la realtà delle cose, è quella riguardante le tanto pubblicizzate celebrazioni per il cosidetto “centocinquantesimo” anniversario dell’unità d’Italia.
Se infatti, per “unità d’Italia” si intende l’unione di “tutte” le regioni del nostro Paese situate a sud delle Alpi, comprese cioè anche le tre Venetie (l’Euganea, la Tridentina e la Giulia) i conti non tornano.
Poiché infatti, il centocinquantesimo anniversario si riferisce alla data del 1861, delle due l’una: o le celebrazioni in oggetto non riguardano l’unità d’Italia ma un altro storico avvenimento, oppure con esse si vuole sancire una realtà storica di fatto, che farebbe storcere il naso a un mucchio di Italiani.
E il perché è presto detto.
L’unità d’Italia, cioè l’unificazione di “tutte” le regioni italiane sotto un’unica bandiera, non avvenne nel 1861, perché le tre Venetie erano ancora sotto dominio austriaco: infatti, la Venetia Euganea fu annessa all’Italia solo dopo la cosidetta terza guerra d’indipendenza, combattuta nel 1866 e persa dal Regno d’Italia su tutti i fronti di terra e sul mare ma fortunatamente stravinta dalla Prussia alleata dell’Italia, mentre la Venetia Giulia e la Tridentina furono annesse all’Italia solo nel 1918, dopo la grande guerra vinta finalmente dall’Italia e dai suoi alleati, vittoria però, che il Governo Italiano non seppe far valere sul tavolo della pace rassegnandosi anche troppo remissivamente a rinunciare alla Dalmazia che, pur essendo un territorio non compreso dalla cerchia alpina, era da sempre abitata da Genti Venete ed era appartenuta alla Repubblica di Venezia per quasi mille anni, fino al momento dell’invasione napoleonica della Venetia.
Essendo questa la situazione storica, se proprio si voleva festeggiare il centocinquantesimo anniversario di qualcosa, si doveva farlo commemorando la “nascita dello Stato Italiano”, Stato che fino a sessant’anni fa si chiamava “Regno d’Italia”.
Ma se proprio si insiste a voler festeggiare il centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia, ebbene, così sia…
Ma ricordiamoci bene: affermare coi festeggiamenti in corso, che l’unità d’Italia giunse a compimento nel 1861, significa prendere finalmente atto di una innegabile realtà storica, accettando la quale si proclama di fatto ufficialmente l’estraneità dei Veneti dal consesso delle popolazioni italiane.
E questo con somma gioia e soddisfazione di quanti fra i Veneti, e sono un’infinità, sognano la rinascita della Serenissima Repubblica di S. Marco.

Paradossi sul tricolore

Altro eclatante pasticcio, generato dalle mezze verità riportate da centocinquant’anni nei libri di scuola, è costituito dalla paradossale diatriba politica sorta fra i sostenitori e i detrattori della Bandiera Italiana.
Oggi infatti, i più accesi sostenitori della sacralità della bandiera italiana sono paradossalmente dei personaggi nati e cresciuti politicamente in un partito che, per decenni, nei suoi manifesti ha nascosto il Tricolore sotto una bandiera rossa con falce e martello, bandiera che costituiva il vessillo nazionale dell’Unione Sovietica…
Inoltre quei personaggi, che attualmente si atteggiano a strenui difensori dell’unità della patria italiana, sono gli stessi che, animati fino a vent’anni fa da un amore struggente verso la lontana “patria sovietica”, per decenni hanno combattuto l’idea del patriottismo verso l’Italia accusandolo di essere una deprecabile eredità del ventennio fascista!
Altrettanto paradossale appare l’avversione per la bandiera italiana espressa da vari esponenti politici “padani”: sull’esempio del loro “leader maximo” infatti, essi ignorano allegramente dei fatti storici, che dovrebbero invece indurli semmai a reclamare per la Padania l’uso esclusivo del Tricolore.
Il fatto è che i libri di scuola non dicono che la bandiera bianco-rossoverde nacque nel 1796 in Francia, con l’approvazione di Napoleone, quale vessillo delle legioni lombarda e italica che combattevano nell’armata napoleonica… e che fu per questo che, nel gennaio 1797, quel vessillo fu adottato come bandiera nazionale dalla Repubblica Cispadana… e non dicono nemmeno che, pochi mesi più tardi, nel luglio del 1797, quello stesso vessillo divenne la bandiera nazionale della neonata Repubblica Cisalpina, la quale, inglobata la Repubblica Cispadana, grazie all’incalzare delle vittorie napoleoniche raggiunse in breve le dimensioni di quella che oggi viene definita Padania.(2)
Di fatto, dunque, ben sessantatre anni prima del 1861 (anno in cui venne assunto come bandiera nazionale del neonato Regno d’Italia) il Tricolore fu la bandiera nazionale del primo Stato Padano della storia … e nulla toglie all’importanza della cosa il fatto che quello Stato non si chiamasse Repubblica Padana ma Repubblica Cisalpina, esattamente come nulla toglie all’importanza delle celebrazioni in corso il fatto che lo Stato Italiano, il cui nome attuale è “Repubblica Italiana”, fino a meno di settant’anni fa fosse chiamato Regno d’Italia.
Resta però lo stupore per l’avversione degli esponenti padani verso il Tricolore, loro primissima bandiera nazionale!

Infine, va ricordato che il tricolore non solo fu la bandiera del primo Stato Padano ma fu anche la bandiera della Repubblica di Venezia risorta con la rivolta della primavera del 1848 contro il dominio asburgico: il Governo Provvisorio della città infatti, assunse come bandiera nazionale il tricolore ornato con il  leone di S. Marco.  Il fatto che poi la Repubblica di Venezia abbia abbandonato questa bandiera non fu dovuto al rifiuto dell’ideale risorgimentale, ma fu la conseguenza del comportamento dell’armata piemontese, la quale, attestandosi inerte per mesi in riva al Mincio, si mosse solo dopo che gli eserciti austriaci ebbero completato il soffocamento nel sangue delle città venete di terraferma in rivolta, comportamento certo non dovuto ad un eccesso di amore verso i Fratelli delle Venetie ma fu dettato da uno spietato calcolo politico che spense nei Veneti l’anelito all’unità d’Italia.(3)

Tricolore (bianco, rosso e verde) con Leone di S. Marco adottato dalla Repubblica Veneta con decreto del 27 marzo 1848 emanato dal Governo Provvisorio della città di Venezia. (da Il Leone di San Marco - di G. Aldrighetti ed M. De Biasi, Venezia 1998)

Tricolore (bianco, rosso e verde) con Leone di S. Marco adottato dalla Repubblica Veneta (rinata a seguito della rivolta contro il dominio austrico) con decreto del 27 marzo 1848 emanato dal Governo Provvisorio della città di Venezia.
(da Il Leone di San Marco – di G. Aldrighetti ed M. De Biasi, Venezia 1998)


  1. Si veda, a questo proposito, “VENETI SU LA TESTA”, l’opuscolo che costituisce il numero 3 di questa serie di APPUNTI DI STORIA.
  2. Le informazioni e le date sulla bandiera italiana sono facilmente veri-ficabili nel DIZIONARIO ENCICLOPEDICO TRECCANI (ed. 1955) alle voci  bandiera, cisalpino e cispadano.
  3. Si veda in proposito l’opuscolo “Veneti su la testa”.

HALLOWEEN: TRADIZIONE CELTICA?… MACCHE’!

E’ piuttosto una montatura grossolana… per fare soldi!

mascheroniSotto il crescente influsso culturale proveniente da Oltreoceano, aumentano ogni anno di più gli eccessi comportamentali dei giovani (ma non sono pochi anche gli adulti che si adeguano a tale moda) messi in atto l’ultimo giorno di ottobre e nella notte del primo novembre, tanto che, sempre più spesso, le cronache riferiscono di sballi micidiali, danneggiamenti gratuiti e addirittura di feroci aggressioni, il tutto in un’atmosfera di crescente orrore sollecitata entusiasticamente dalle vetrine dei negozi addobbate con scheletri e maschere di teste umane in putrefazione avanzata, atmosfera animata poi da personaggi che spesso si muovono a gruppi per le vie cittadine camuffati in modo macabro da zombi più o meno putrefatti, i morti che camminano della tradizione wudu.
mostriIn una simile atmosfera, poi, sembra naturale che, forse per vincere lo schifo per la propria rivoltante acconciatura, qualcuno di quegli zombi si ubriachi e si droghi fin quasi a morirne e, purtroppo, sono sempre più frequenti le occasioni in cui quel quasi si annulla al punto, che qualche finto morto finisce davvero  all’obitorio!
E sono sempre più frequenti gli episodi, in cui la buffa minaccia espressa dalle parole “dolcetto o scherzetto” si trasforma in un tentativo di estorsione e, nei casi peggiori, in violenta aggressione.
Sapientemente promosso ed orchestrato da produttori di gadget e da negozianti privi di buon gusto interessati solo a fare cassetta, tutto questo rivoltante trambusto inscenato alla vigilia della tradizionale giornata del ricordo dei Defunti è presentato come un rituale di tradizione celtica, cosicché viene furbescamente spacciato per  manifestazione culturale.

Come appare dalle foto, è innegabile che, in un clima di apparente allegria, in tali manifestazioni il diavolo ci metta le corna

Come appare dalle foto, è innegabile che, in un clima di apparente allegria, in tali manifestazioni il diavolo ci metta le corna

Ebbene, questo tipo di manifestazioni, prodotte dall’oculata mescolanza dei sempre più diffusi (in Occidente) rituali satanici con gli aspetti più deteriori delle culture animiste portate in America dagli schiavi africani, come vedremo non ha nulla a che vedere con le civili tradizioni legate al culto dei morti comuni a tutti i popoli dell’antichità… e tanto meno ha attinenza con la tradizione celtica!
Questa affermazione così categorica è giustificata dall’autorevole testimonianza dello storico greco Polibio, secondo il quale, per usanze e costumi, gli antichi Veneti erano in tutto simili ai Celti, dai quali si distinguevano solo per la lingua.
Ebbene, se gli antichi Veneti praticavano culti simili a quelli dei Celti, per conoscere come questi ultimi ricordavano i loro Antenati basta andare a vedere quali erano le analoghe tradizioni funerarie venetiche.
Come è noto, i Veneti antichi hanno lasciato una notevole mole di testimonianze materiali riguardo alle loro credenze: in particolare, in una stipe rinvenuta a Vicenza, hanno lasciato numerose laminette votive in bronzo, alcune delle quali riguardano esplicitamente il culto dei morti, culto che nulla aveva in comune con le attuali, rivoltanti manifestazioni pseudo-folcloristiche di Halloween.
A sostegno di quanto vado dicendo, invito il Lettore a dare una scorsa all’articolo che segue, il quale espone con documentata chiarezza la sobrietà e la sorprendente diffusione delle modalità, con cui le antiche Popolazioni Venete e Celtiche ricordavano i loro defunti.
L’articolo riguarda un studio condotto in relazione alle insoddisfacenti interpretazioni fornite dagli Studiosi riguardo ad alcune laminette venetiche decorate con figure del tutto inusuali; così, avvalendomi dei confronti con documenti analoghi risalenti a varie epoche e provenienti anche da regioni lontane, giunto infine a conclusioni soddisfacenti, nel settembre 1982 pubblicai le mie idee sull’argomento col terzo opuscolo degli Appunti di Archeologia della FAAV (la Federazione delle Associazioni Archeologiche Venete) e successivamente, in data 12 giugno 1992, sulla pagina della Cultura de Il Giornale di Vicenza.
Bambini impauritiEbbene, data la crescente attualità dell’argomento, ritengo utile pubblicare detto studio anche su queste pagine, per sfrondare l’alone di pseudo-cultura col quale è proposto al Pubblico il rituale di Halloween, rituale che, come attesta la foto qui a lato, tratta da un sito web dedicato allo stesso argomento,  può produrre effetti traumatizzanti molto negativi sulla psiche dei bambini e delle persone immature in genere.

NB: tutte le foto presenti su questa pagina sono tratte dal sito “bing. com/images   immagini di Halloween”

 

Gianni Bassi:
CULTO DEGLI ANTENATI NELLE LAMINETTE PALEOVENETE DI VICENZA


Premessa

Fg 1: Laminetta votiva di età venetica rinvenuta a Vicenza decorata a sbalzo e incisione con una cosidetta processione di nudi (foto da. Paleoveneti di Vicenza. Ed. Com. di Vicenza).

Fg 1: Laminetta votiva di età venetica rinvenuta a Vicenza decorata a sbalzo e incisione con una cosidetta processione di nudi (foto da. Paleoveneti di Vicenza. Ed. Com. di Vicenza).

Negli anni ’50, durante lo scavo per la costruzione di un edificio presso piazzetta S. Giacomo, nel cuore di Vicenza, vennero alla luce circa duecento laminette in bronzo di età venetica databili, secondo gli esperti, intorno al V sec. A.C.
Buona parte delle laminette è ora custodita nel Museo Civico di Vicenza e le più balle sono esposte al pubblico corredate da ottimi ingrandimenti fotografici, che permettono di goderne appieno l’ornamentazione.

Fg 2: elemento di una processione di individui definiti Signorotti barbuti e paludati  (foto da Paleov. di Vicenza )

Fg 2: elemento di una processione di individui definiti Signorotti barbuti e paludati
(foto da Paleov. di Vicenza )

Le laminette, infatti, sono decorate con figurine sbalzate sommariamente ma chiaramente comprensibili, le quali danno una panoramica piuttosto vasta sui costumi della gente che viveva nella Regione Veneta duemilacinquecento anni fa.
In mezzo a tanto materiale interessante, spicca un certo numero di pezzi che fanno categoria a sé: essi, infatti, recano delle figurine straordinarie (fg 1), per le quali, se sarebbero fuori luogo i voli di fantasia degli scrittori di archeologia fantastica o di fantascienza, che in esse potrebbero vedere dei palombari o addirittura degli astronauti, è certo immotivata anche la superficialità con cui sono state trattate dagli Studiosi all’epoca del rinvenimento.
Tali laminette, infatti, costituiscono una testimonianza eccezionale in relazione ad un culto antichissimo, che affonda le proprie radici nella notte dei tempi.

Processione di nudi?

Fg 1a: particolare  (figure femminili a destra della lamina)  (dis. Gianni Bassi)

Fg 1a: particolare (figure femminili a destra della lamina)
(dis. Gianni Bassi)

Per niente impressionati dalla stranezza dei personaggi raffigurati su queste laminette, gli Studiosi li hanno semplicemente definiti nudi o processioni di nudi (1), così come hanno (in verità più propriamente) definito
processioni di guerrieri e processioni di donne numerosi altri gruppi di personaggi sbalzati in stile verista su altre laminette provenienti dallo stesso sito.
Tuttavia, poiché in alcune laminette la figura umana è resa in modo inconfondibile, come ad esempio nella laminetta con la teoria di signorotti barbuti (fg 2), le caratteristiche somatiche delle figurine simili a palombari non sono, a mio avviso, una semplificazione della figura umana ma la rappresentazione fedele di qualcos’altro.
Vediamo innanzitutto le caratteristiche di queste figurine misteriose (fg 1a): la testa è rotonda sormontata da una vistosa cresta di pennacchi e presenta, all’altezza degli occhi, una larga fessura orizzontale a forma di spicchio; il corpo è contrassegnato da attributi sessuali schematici ma inconfondibili; le braccia pendono lungo i fianchi e terminano in mani senza vita, come guanti vuoti; le gambe sembrano accennare un passo di danza, e questa impressione è rafforzata dalla vicinanza degli altri personaggi sbalzati nell’identico atteggiamento.

Sciolto l’enigma

Fg 3: pittura rupestre di età neolitica rinvenuta nel Tassili (Dis, Gianni Bassi)

Fg 3: pittura rupestre di età neolitica rinvenuta nel Tassili
(Dis, Gianni Bassi)

Una figura così singolare non doveva essere il frutto dell’imperizia dell’artista o dovuta al caso ma, soprattutto per la presenza della cresta di pennacchi, doveva al contrario avere un significato preciso e ben noto alla gente dell’epoca, anche se ai nostri occhi la cosa non appare evidente.
Ad avvalorare questa impressione è una figura pressoché identica, che appare nelle pitture rupestri del Tassili, nel deserto del Sahara (fg 3), la quale, però, è alquanto più antica delle nostre laminette, poiché gli Studiosi la attribuiscono al periodo Neolitico, dunque ad oltre quattromila anni fa: tale figura ha la stessa testa rotonda, gli stessi pennacchi, la stessa fessura per gli occhi e giganteggia quasi orizzontale su una scena di caccia di dimensioni piccolissime, su un arcere di dimensioni quasi pari alle sue e su altri due individui, due lottatori, (2) pure di analoghe dimensioni, tutti dotati di testa rotonda, priva però di pennacchi e di aperture di qualsiasi tipo. (3)
Il significato della grande figura con pennacchi è difficile da comprendere, ma il fatto che sia così diversa dalle altre, e soprattutto la sua posizione quasi orizzontale, sembrano definirla non appartenente al mondo dei vivi; tuttavia, l’atteggiamento del suo braccio, che sembra volersi intromettere nella contesa fra i due lottatori, lascia intendere che essa abbia il potere di intervenire nelle vicende umane: dunque, potrebbe trattarsi non di una semplice figura umana con testa rotonda, come è definita abitualmente, ma di una ben caratterizzata figura di divinità o di antenato.

Fg 4: Sciamano? Incisione rupestre della Val Camonica (dis, Gianni Bassi)

Fg 4: Sciamano? Incisione rupestre della Val Camonica
(dis. Gianni Bassi)

Tornando più vicini a noi nello spazio e nel tempo, troviamo un personaggio simile a quelli delle nostre laminette fra le migliaia di figure incise sulle rocce della Val Camonica: si tratta di un individuo dalla corporatura tozza caratterizzato dalla testa rotonda munita di vistosi pennacchi (fg 4) la quale, però, è priva della fessura all’altezza degli occhi. Tuttavia, data la rudimentale tecnica di esecuzione (basata sulla percussione della superfice rocciosa anziché sulla vera e propria incisione), la mancanza di questo elemento è comprensibile, giacché il personaggio è raffigurato in posizione frontale.
Il significato di questa figura non è chiaro, tuttavia, potrebbe essere indicato dall’atteggiamento delle braccia, disarmate e tese verso l’alto nella caratteristica posa del cosidetto orante.(4)  Anche questo individuo, dunque, sembrerebbe appartenere alla sfera spirituale dell’Uomo: forse si tratta di uno sciamano in atteggiamento di preghiera, oppure è una divinità o, ancora, un antenato, chissà?

Fg 5: Scena di compianto funebre su un vaso greco dell’VIII sec. A.C. (dis. Gianni Bassi)

Fg 5: Scena di compianto funebre su un vaso greco dell’VIII sec. A.C.
(dis. Gianni Bassi)

Che queste straordinarie figure possano essere la rappresentazione di qualche personaggio non appartenente al mondo dei vivi, è confermato da una scena funebre dipinta su un grande vaso greco decorato in tardo stile geometrico e risalente all’ottavo sec. a.C. (fg 5), nella quale appare un defunto disteso su un catafalco e attorniato da una folla di persone piangenti.
Di statura nettamente superiore a quella dei circostanti vivi, il morto, e solo lui, è caratterizzato da una cresta di pennacchi che parte dalla fronte e va fino alla nuca.
Finalmente, la cresta di pennacchi sulla testa assume un significato preciso, essa infatti ha una funzione pratica quale segno distintivo dei morti.(5)

Fg 6:  scena di naufragio su vaso greco tardogeometrico

Fg 6: scena di naufragio su vaso greco tardogeometrico

Tale funzione è confermata da un altro vaso greco tardo geometrico, che risale alla fine dell’VIII – inizi del VII secolo a.C. proveniente dalla colonia greca di Pitecussai (l’attuale isola di Ischia, fg 6).  Su tale vaso è raffigurata una scena che costituisce l’incubo dei naviganti, il naufragio: in essa infatti, appare una nave capovolta circondata dai corpi dei marinai affogati che fluttuano in mezzo ai pesci, uno dei quali si appresta a divorare un annegato.
Ebbene, tutti gli uomini (affogati e dunque “morti”) hanno sul capo una cresta di pennacchi!

Fg 8: scena di “estremo viaggio“ incisa su una stele dauna del  VI - V sec. a.C. (dis. Gianni Bassi)

Fg 8: scena di “estremo viaggio“ incisa su una stele dauna del VI – V sec. a.C.
(dis. Gianni Bassi)

Altra conferma ci viene da una stele funeraria della Daunia del VII – VI sec. A.C. (fg 7),  sulla quale è incisa una navicella che trasporta nel Regno dei Morti tre defunti o le loro anime, ed anche in questo caso i tre personaggi, raffigurati rozzamente con un viso appena abbozzato, recano sul capo la solita, inconfondibile cresta di pennacchi!…  Data la relativa vicinanza geografica e culturale dei Dauni (stanziati nella Puglia settentrionale) con gli antichi Veneti,(6) i tre personaggi della stele (anteriore alle laminette vicentine di solo un secolo) consentono di collegare anche le figurine misteriose delle nostre laminette al culto dei morti.
Rimano però ancora da spiegare la strana forma della testa, che trova riscontro solo nella pittura rupestre del Tassili (la quale, tuttavia, è più antica di ben duemila anni) e si differenzia nettamente dagli analoghi documenti quasi suoi contemporanei, quali le pitture sui vasi greci e le incisioni sulla stele dauna.

Dalla notte dei tempi ai giorni nostri

Fg 8: Danza rituale (attuale) legata al culto dei morti in una remota valle himalayana    (dis. Gianni Bassi da foto sulla rivista Airone)

Fg 8: Danza rituale (attuale) legata al culto dei morti in una remota valle himalayana
(dis. Gianni Bassi da foto sulla rivista Airone)

Una spiegazione, forse addirittura quella definitiva, sul significato delle misteriose figurine crestate sbalzate sulle laminette venetiche di Vicenza, ci viene da uno strano rito, significativamente legato al culto dei morti, rito praticato ancora ai nostri giorni da una piccola popolazione montanara, che vive isolata in una remota valle dell’Himalaia.(7)
Durante gli interminabili inverni imalaiani, infatti, quella popolazione si diletta con una infinità di feste e di cerimonie, in una delle quali appare una piccola processione di danzatori abbigliati in maniera straordinaria (fg 8): la loro testa è nascosta in un mascherone tondeggiante a forma di teschio, dalla cui bocca, formata da una fessura a forma di spicchio, i danzatori possono vedere all’esterno; il cranio è sormontato da una fila trasversale di creste vistose, mentre tutto il corpo è rivestito da una rudimentale tuta bianca attillata, le cui maniche terminano in larghi guanti flosci, vuoti di vita, mentre le brache si prolungano fino a coprire i piedi e terminano con grosse dita vuote. Sul busto e sulle ginocchia sono dipinte in rosso alcune ossa dello scheletro, un po’ come appare in una delle nostre laminette, in cui gli Studiosi pensano di vedere un tentativo, di studio anatomico.

Fg 9: Ricostruzione ideale dei danzatori raffigurati sulla laminetta venetica della fg. 1 (dis. Gianni Bassi)

Fg 9: Ricostruzione ideale dei danzatori raffigurati sulla laminetta venetica della fg. 1
(dis. Gianni Bassi)

Questi personaggi sono i “Tur-tod Dakpo”(8), il cui nome significa “Signori della città (o torre?) della Morte”, i quali, con la loro danza, esprimono le movenze della Morte, che miete le vite e getta le anime nel “Bardo”, un luogo in cui gli spiriti sosterebbero in attesa della loro destinazione definitiva, la quale verrebbe stabilita in base ai meriti acquisiti in vita.(9)
Osservando il profilo delle figure dei danzatori, appare evidente la loro perfetta somiglianza con la figura dei personaggi sbalzati sulla nostra laminetta, il cui significato, a mio avviso, ora è chiaro al dilà di ogni ragionevole dubbio: le nostre cosidette processioni di nudi sono in realtà processioni di danzatori abbigliati con mascheroni a forma di teschio piumato e impegnati in qualche cerimonia relativa al culto dei morti(10). (fg 9)
Tale tipo di cerimoniale, praticato già nel Neolitico (come attesta la pittura rupestre del Tassili),  ancora oggi ha una larghissima diffusione. Oltre che nella già citata valle imalajana, infatti, danzatori o figuranti che nascondono ogni parte del corpo sotto mascherature raffiguranti i defunti(11) si possono notare lungo le coste occidentali dell’Africa, come ad es. in Costa d’Avorio, presso la popolazione dei Kotò (fg 10) e nelle isole Canarie, dove si usa nascondere il volto con un fitto velo e le mani, spesso, addirittura con moderni guanti di gomma(12).
Tale usanza, ormai scomparsa da noi, ma della quale io serbo ancora il ricordo vivo dalla mia infanzia quando, alla vigilia del giorno dei morti, noi ragazzini ci divertivamo a ritagliare le zucche vuote, all’interno delle quali mettevamo un mozzicone di candela accesa, che al buio faceva risaltare i tratti della maschera (fg 11) sembra sia ancora praticata in varie località dei Paesi anglosassoni, e costituisce l’estremo ricordo di un rito universale dedicato agli Antenati, rito che affonda le proprie radici nella notte dei tempi.

Fg 11:  maschera ricavata da una zucca vuota con all’interno un lumino.

Fg 11:  maschera ricavata da una zucca vuota con all’interno un lumino

Fg 10: danzatore appartenente ad una popolazione attuale della Costa d’Avorio. (disegno di Gianni Bassi da foto su una rivista di antropologia)

Fg 10: danzatore appartenente ad una popolazione attuale della Costa d’Avorio. (disegno di Gianni Bassi da foto su una rivista di antropologia)

CONCLUSIONE

Come abbiamo visto, dunque, per quanto ci è dato sapere dalla iconografia venetica, nelle tradizioni degli antichi Veneti inerenti al culto dei morti non appare alcun particolare aspetto che possa far pensare al gusto del macabro e dell’orrido.
Di conseguenza, grazie alla testimonianza di Polibio, possiamo ritenere che nemmeno presso i Celti venissero praticati rituali dagli aspetti rivoltanti, come quelli che si vedono celebrati per le nostre strade nelle sere precedenti la giornata del ricordo dei Defunti.
Pertanto, possiamo affermare senza timore di smentite, che le macabre mascherate di Halloween, importate da oltre oceano e con tanto entusiastico impegno scimmiottate in Europa ai giorni nostri, nulla hanno a che vedere con la Cultura, ma costituiscono la realizzazione di una ben orchestrata operazione finanziaria finalizzata allo scardinamento dei valori tradizionali della nostra Socetà per favorire determinati commerci.
Commerci, che trovano mercato solo nell’oscurità e nel disordine.

 

  1. Da “Paleoveneti di Vicenza” ed. Comune di Vicenza 1963
  2. L’ipotesi, secondo cui i due individui sarebbero dei lottatori, è basata sul loro atteggiamento, che richiama quello dei lottatori dipinti nella tomba etrusca degli Àuguri, a Tarquinia.
  3. Anche in dipinti egizi di epoca predinastica appaiono figure simili.
  4. Gli “Oranti” sono personaggi raffigurati con le braccia sollevate a “U”, in atteggiamento ritenuto di preghiera. A volte, come in Val Camonica, di tali individui è raffigurato solo il busto (detto “busto di orante”) il quale, però, era forse già un ideogramma per indicare lo “spirito del defunto”.
  5. Nell’iconografia antica i defunti sono sempre riconoscibili: oltre che per la presenza di pennacchi sul capo, come appare dalle immagini espresse da numerose culture, altro indicatore di stato sono le fisionomie dei volti, le quali possono essere fortemente alterate o del tutto assenti, come appare nell’impugnatura in avorio del cosidetto Coltello di Gebel el Arab (alto Egitto) dove, tra una folla di combattenti perfettamente scolpiti in tutti i particolari, si distinguono due personaggi su una barca, la cui testa è senza volto a significare che sono le anime di due caduti imbarcate per l’Aldilà.
  6. Sembra ormai accertato il fatto, che Dauni e Veneti costituissero due diversi rami della medesima orda dei Cavalieri Nomadi (definiti così dagli Autori d’oltralpe) provenienti dalle pianure a Nord del Mar Nero, da cui furono cacciati dall’avanzata degli Sciti fra X e IX sec. A.C.
  7. La distanza di tempo e di spazio non deve impressionare, poiché gli Indoeuropei raggiunsero le falde meridionali dell’Himalaya già verso la fine del terzo millennio a.C. e l’influenza della loro presenza è attestata dal nome dell’immensa catena montuosa: Himalaya, infatti, deriva dalle parole “hiem”, che in latino significa “inverno”, e “palaja”, palazzo, a significare “Palazzo dell’inverno”, con chiaro riferimento alle nevi perenni che ne ricoprono le cime.
  8. Si noti l’affinità di Tur con la parola latina Turris e la germanica Turm, che significano entrambe Torre, e Tod, che significa morte anche in tedesco.
  9. Da: La danza dei monaci, articolo di Olga Ammann e Franz Aberham pubblicato sulla rivista Airone n. 31 pag 114.
  10. L’uso di maschere rituali a forma di teschio per raffigurare defunti o divinità dei morti è frequente in molte civiltà anche assolutamente estranee tra di loro, come nel caso della dea precolombiana Coatlique venerata oltre Atlantico.
  11. Presso gli Induisti, subito dopo la morte i defunti vengono avvolti in un telo che copre anche la testa; questa però viene stretta al collo con un laccio, che conferisce alla salma l’aspetto di una spece di bozzolo con la testa tondeggiante ben distinta dal corpo.
  12. Anche in Sardegna c’è un costume rituale che copre tutto il corpo (il viso è nascosto da una maschera dorata e le mani da guanti bianchi): si tratta

Arcobaleno: simbolo di pace?

Arcobaleno sul lago

Arcobaleno sul lago (si noti la sequenza col rosso sul profilo esterno e il violetto all’interno dell’arco)

In un lucido articolo sul Corriere della Sera del 27 marzo 2003, Ernesto Galli della Loggia osservava come la bandiera dell’arcobaleno, che sventola su tutti i cortei che percorrono le città italiane, rappresenti molto di più che una semplice bandiera della pace: essa, almeno in Italia, è la bandiera della nuova sinistra, il vessillo che sta soppiantando la bandiera rossa di un tempo.
Ma quale è il significato profondo del nuovo simbolo pacifista?
Si tratta, com’è noto, di una bandiera a bande colorate orizzontali che dovrebbero rappresentare l’arcobaleno, segno biblico di pace tra Dio e l’Uomo(1). Tuttavia, poiché i promotori del pacifismo sono, per dire il meno, del tutto aconfessionali, e poiché in quella bandiera i colori dell’arcobaleno sono stranamente riportati alla rovescia(2), viene il sospetto che il significato di quel simbolo sia ben diverso.
Non sarebbe questo il primo caso di rovesciamento dei simboli per rovesciarne il significato: i satanisti, ad esempio, usano rovesciare la croce, e non lo fanno certo per onorare il simbolo della Passione di Cristo!

LA REALTA’

In ogni caso, la scelta di quel simbolo non deriva certo dalla Bibbia: l’origine prossima pare risalire alla Società Teosofica, setta gnostica e orientaleggiante fondata nel 1875 da Helena Petrovna Blavatskij, una medium russa che si diceva portavoce di “potenze superiori occulte”, si considerava alfiere del socialismo internazionale e pretendeva di instaurare una super-religione della pace universale(3).
Molto più tardi, l’arcobaleno divenne simbolo della galassia settaria detta New Age, che annunciava la fine dell’era cristiana dei Pesci e l’avvento dell’era dell’Acquario, nella quale la pace dovrebbe essere prodotta dall’universale fratellanza anarchica ed ecumenica.
Nel 1978, l’arcobaleno fu ridisegnato rovesciato dall’artista Gilbert Baker quale simbolo del movimento omosessuale statunitense e, da allora, tale bandiera garrisce nello “storico” enclave gay in un quartiere di San Francisco.
E dal 2003, secondo il segretario del partito radicale dell’epoca, anche in Italia quella bandiera esprime la liberazione del movimento omosessuale(4).
Ben diverso dal falso arcobaleno pacifista è il vero arcobaleno biblico, il quale, come insegnava papa Pio X, già allora prefigurava il ruolo di Maria come mediatrice di pace tra Dio e l’Uomo: “In mezzo a questo diluvio di mali ci si presenta dinanzi agli occhi, simile all’arcobaleno, la Vergine clementissima, quasi arbitra di pace tra Dio e gli uomini: Pongo il mio arcobaleno nelle nubi, affinché sia il segno del patto che ho stipulato con la Terra (Gn. 9. 13). Imperversi pure la tempesta
e s’infoschi il cielo, ma nessuno se ne sgomenti. Alla vista di Maria, Dio si placherà e perdonerà: quando l’arcobaleno svetterà sulle nubi, io, guardandolo, mi ricorderò del patto sempiterno (gn. 9. 16)” (5).
“Il dono della pace è al centro della profezia di Fatima, in cui la Madonna afferma che il mondo è di fronte a un bivio cruciale: vi sarà pace solo se gli uomini si convertiranno e saranno esaudite le richieste del Cielo, comprendenti la consacrazione della Russia al Cuore di Maria e la comunione riparatrice nei primi cinque sabati del mese, altrimenti, la Russia diffonderà nel mondo i suoi errori, promuovendo guerre e persecuzioni alla Chiesa: «… i buoni saranno martirizzati, il Santo Padre dovrà soffrire molto, diverse nazioni saranno annientate, infine, il mio Cuore Immacolato trionferà! Il Santo Padre mi consacrerà la Russia, che si convertirà, e sarà concesso al mondo un periodo di pace». La Russia si è autodissolta ma i suoi errori si sono propagati nel mondo intero e oggi hanno un loro simbolo nell’arcobaleno pacifista, che proclama una pace senza giustizia e senza libertà. L’arcobaleno cristiano, il Regno di Maria profetizzato a Fatima, nasce invece, come ogni vera pace, dalla preghiera, dalla lotta contro satana e dal sacrificio”(6).
Recentemente, è apparsa in pubblico una variante della bandiera in oggetto, la quale presenta la fascia color violetto stranamente spostata fra il verde e l’azzurro: non vorrà per caso, tale modifica, simboleggiare il primo passo del disordine che seguirà il rovesciamento dei valori espresso dal rovesciamento dei colori dell’arcobaleno?


  1. Secondo l’Antico Testamento, dopo la punizione dell’Umanità corrotta a mezzo del diluvio universale, Dio avrebbe posto in celo l’arcobaleno quale segno di pace tra Sè e gli Uomini.   Come è noto (e facilmente verificabile) l’arcobaleno è formato da sette bande coi colori dell’iride, i quali sono prodotti dalla rifrazione della luce nel pulviscolo acqueo particolarmente denso nell’atmosfera dopo un forte temporale o sopra una cascata. La sequenza di detti colori è rigidamente e immutabilmente determinata dalla loro diversa lunghezza d’onda, pertanto, partendo dall’alto essi  sono: rosso, arancio, giallo, verde, azzurro, indaco e violetto; ai margini dell’arcobaleno, poi, ci sono le bande invisibili del-l’infrarosso (in alto) e dell’ultravioletto (in basso).
  2. Nella bandiera in oggetto, infatti, la posizione delle bande colorate è invertita, con il rosso posto alla base di tutta la serie.    Ovviamente, tale sequenza non ha nulla a che vedere con quanto avviene in natura (nell’ordine posto dal Creatore, secondo i Credenti) poiché, essendo la componente rossa della luce la meno deviata dalla rifrazione, essa si presenta sempre in alto, sul margine esterno dell’arco dell’iride, mentre la componente violetta, che presenta la massima deviazione, è situata forzatamente in basso, sul margine interno dell’arco.
  3. Storicamente, una bandiera arcobaleno fu usata nella Guerra dei contadini tedeschi nel XVI secolo come segno di una nuova era di speranza e cambiamento sociale. Le bandiere arcobaleno sono anche state usate per rappresentare il Tawantin Suyu o Territorio Inca, in Perù ed in Ecuador, e come simbolo del movimento Cooperativo; inoltre, sono state usate dallo Oblast autonomo ebraico e da alcune comunità di Drusi in Medio Oriente (da Vikipedia, Internet).
  4. Notizia riportata dal quotidiano Libero del 27 marzo 2003.
  5. Enciclica del 2 febbraio 1904 Ad diem illum laetissimum di San Pio X.
  6. Da Corrispondenza romana del 29 marzo 2003, n. 902.

 

Credere o … non credere?

Per quanto ciascuno di noi possa essere convinto assertore di uno fra i due termini della domanda, prima o poi questo amletico quesito giunge a turbare i nostri sonni.
Qualcuno si chiederà quale attinenza possa avere un simile argomento col nostro programma di discussione della Scienza… la risposta ci viene dai discorsi di due valenti scienziati, le cui frequenti argomentazioni in proposito dimostrano che il nesso c’è, e forte.
Il quesito credere o non credere, infatti, doveva essere spesso presente nei pensieri di una famosa scienziata italiana scomparsa recentemente, la quale, forse per rafforzare dentro di sé le proprie convinzioni, nelle sue non rare comparse televisive non perdeva occasione di dichiararsi atea, senza peraltro (che io sappia) dare mai alcuna ragione a sostegno delle sue convinzioni benché, dato l’importanza della Fisica nella sua attività scientifica, di ragioni avrebbe forse potuto darne(1).
Resa, a mio avviso, simpatica per il suo spiccato accento toscano (pardon, toshano) mi infastidiva non poco, invece, l’insistenza su quella sua intima convinzione, che nulla aveva a che fare con i motivi della sua comparsa in TV, motivi legati appunto alla sua attività di studiosa.
Ma che senso aveva quel bisogno di manifestare in pubblico le proprie convinzioni riguardo ad una materia tanto personale e delicata?
Su posizioni diametralmente opposte, invece, si trova un altro notissimo studioso italiano, egli pure in là con gli anni ma, per sua fortuna, ancora ben presente in questa valle di lacrime e anch’egli legato al mondo della Fisica.
In una recente intervista rilasciata ad un noto periodico di divulgazione scientifica, quello scienziato spiegava, o meglio, cercava di spiegare, le ragioni a sostegno della sua fede, ragioni di carattere filosofico e addirittura statistico (la maggiore quantità dei luminari credenti rispetto agli atei) espresse però con linguaggio specialistico certo non adatto a convincere.
Ebbene, se l’argomento credere o non credere viene trattato pubblicamente dagli Scienziati e se le loro argomentazioni sembrano non quadrare, mi sembra lecito trattare dell’argomento nel nostro blog Discutiamo la Scienza.
Tralasciando le affermazioni dei due luminari, le quali, contraddicendosi diametralmente, si escludono a vicenda, passiamo invece ad analizzare i fatti e, tanto per rimanere nel campo di attività dei due Scienziati, vediamo cosa dice la legge fondamentale della Fisica: ebbene, detta legge dice: in Natura, nulla si crea e nulla si distrugge, ma tutto si trasforma”…
Ora, noi non ci metteremo a indagare su quali e quante trasformazioni hanno subito la materia e l’energia: ci basta sapere che, dal momento che nulla si crea e nulla si distrugge, appare evidente che l’essenza di ciò che noi conosciamo come materia ed energia esiste da sempre e, se esiste da sempre, significa che si tratta di un qualcosa che è eterno.
In campo scientifico, sembra che parlare di eternità non abbia senso, tant’è vero che di essa non si sente mai parlare da parte dei Dotti, i quali preferiscono sorvolare sul mistero che essa rappresenta.
E su tale mistero rifiutano di riflettere sopratutto i sostenitori del non credere
Troppo comodo, amici! É qui che sta il nocciolo del quesito sul quale stiamo ragionando: se alla radice di tutto ciò che conosciamo c’è un principio eterno, il quale, evolvendosi innumerevoli volte e in modi infiniti, seguendo o meno un determinato processo razionale(2) è giunto ad offrire ai nostri sensi tutto ciò che conosciamo, significa che, se abbiamo un po’ di discernimento, dobbiamo passare al credere!
Ma credere a cosa?… o in che cosa?
La risposta dipende da come noi intendiamo immaginare il Principio Eterno (e a questo punto, data l’importanza fondamentale di tale definizione, dobbiamo scriverla in maiuscolo).
Vogliamo immaginarlo come un Immenso insieme di qualcosa di indefinibile? Allora possiamo continuare a chiamarlo Principio Eterno, benché tale definizione sia in contraddizione con sé stessa, perché la parola principio significa inizio, concetto che contrasta in modo insanabile con eterno, cosicché, messe insieme, le due parole costituiscono un mistero
Un Mistero che, anche se non riusciamo a comprenderlo, non possiamo negare!
Oppure, il Principio Eterno può essere chiamato Brahma, il Creatore, capo della Trimurti indiana, o Jahvè (Colui che è) il Creatore secondo la tradizione ebraica, oppure Odino o Wotan, il capo degli dèi germano-scandinavi, od ancora in cento altri modi, diversi eppure simili nel significato: l’Eterno da cui hanno preso Principio tutte le cose che esistono.
Da parte mia, io amo chiamarlo semplicemente Dio, il Creatore, e me lo immagino come l’ho disegnato nella figura che illustra l’articolo su C’è evoluzione ed evoluzione: un Vegliardo che dà disposizioni alle sue creature affinché tutto evolva secondo il suo provvidenziale progetto.
«Ma tutto questo – dirà stizzito qualcuno – non ha nulla da spartire con la Scienza!»
Ma siamo sicuri di questa perentoria esclusione?… No perché, vedete, la Scienza ha un modo tutto suo di trattare i misteri: non potendoli spiegare, o li nega, osteggiando talvolta anche brutalmente chi li sostiene, oppure, più elegantemente, li ignora come se non esistessero, oppure ancora, li nasconde dietro espressioni meno impegnative, come fa col concetto di Spazio infinito, che il filosofo Kant definisce “pura intuizione” poiché non è empiricamente percepibile, oppure, sorvolando distrattamente sull’attributo infinito, lo comprime all’interno di confini innaturali come fa con la definizione di Spazio euclideo!


  1. Com’è mia consuetudine, non dico mai il nome delle persone dalle cui argomentazioni io dissento, e ciò per correttezza verso le stesse persone, che non avrebbero modo, in questa sede, di ribattere alle mie osservazioni, e verso le quali nutro invece stima e gratitudine, poiché mi danno lo spunto per la verifica, stimolando l’approfondimento delle mie conoscenze.
  2. Vediamo in proposito gli articoli C’è evoluzione ed evoluzione e Alla ricerca dell’anello mancante presenti su questo stesso Blog nel settore Archeologia.

 

Quando i “Dotti” bloccano la scienza

Se una teoria non regge, non basta la fama dell’autore a renderla credibile  

Contrariamente a quanto avviene di regola in seguito alla pubblicazione di un’ipotesi scientifica rivoluzionaria, che trova riscontro immediato nella realtà delle cose e dalla quale prende subito il via una sequenza di scoperte che allargano grandemente gli orizzonti della Scienza, dalla rivoluzionaria teoria sulla deriva dei continenti, pubblicata da Alfred Wegner quasi cento anni fa, non è ancora scaturito alcun progresso.   Avversata per mezzo secolo perché il suo autore, un climatologo tedesco, da non addetto ai lavori quale era non riusciva a spiegare in modo convincente i meccanismi che provocano la pur innegabile deriva dei continenti, detta teoria fu finalmente accolta dagli specialisti solo quando un loro collega, un geologo americano, nei primi anni sessanta pubblicò un’altra ipotesi, che della deriva dei continenti dava una spiegazione professionale (si badi bene, ho detto professionale, non credibile).
Tale ipotesi, detta dell’espansione dei fondi oceanici, postula l’esistenza, nelle viscere della Terra, di correnti convettive il cui ramo ascendente sarebbe costituito dal magma che sale alla superfice attraverso le fratture profonde esistenti in corrispondenza delle dorsali oceaniche, magma che, raffreddatosi a contatto con le acque abissali e trasformatosi nella sottile crosta basaltica del fondale oceanico, si muoverebbe orizzontalmente allontanandosi dalla dorsale di origine per poi tornare ad immergersi nelle viscere della Terra a ridosso delle piattaforme continentali (dunque dopo un percorso di migliaia di chilometri durato decine e decine di milioni di anni) fino a tornare allo stato completamente fluido nel corso di altri milioni di anni scendendo lungo il cosidetto piano di Benioff, discesa durante la quale, grazie alla sua pur decrescente consistenza, riuscirebbe a provocare terremoti fino ad una profondità di oltre 700 Km.

Presunta subduzione della crosta oceanica sotto la placca continentale

Presunta subduzione della crosta oceanica sotto la placca continentale
Illustrazione tratta da Geologia delle Dolomiti, di Alfonso Bosellin (ed. Athesia)

OBIEZIONI

Tutta questa costruzione teorica si basa sulla convinzione che il basalto della crosta oceanica sia più pesante del densissimo magma che l’ha generato, cosicché potrebbe essere indotto ad inabissarsi senza opporre resistenza una volta giunto a ridosso della piattaforma continentale.
La cosa appare paradossale, poiché se il basalto della crosta oceanica riesce a galleggiare sul magma profondo per tempi di durata geologica, non si capisce come si possa affermare che esso sia più pesante del fluido che lo sorregge.
E d’altra parte, se veramente il basalto fosse più pesante del magma su cui galleggia, non si capisce come esso non affondi subito dopo essersi formato e riesca anzi a galleggiare per tanti milioni di anni!
A questa contraddizione, poi, se ne aggiunge un’ altra non meno eloquente: a 800°C di temperatura il basalto diventa già notevolmente malleabile e a 1.000-1.200°C esso è già perfettamente fluido; poiché, dunque, secondo gli specialisti la crosta basaltica oceanica conserverebbe la sua consistenza fino a profondità di molte centinaia di chilometri, dove la temperatura ambientale è enormemente superiore a quella di fusione (si calcola che a 50 Km di profondità la temperatura sia già di 1.500°C, a 250 Km sarebbe di ben 7.500°C e a 600 Km sarebbe addirittura di 18.000 gradi!) pur essendo il basalto un ottimo conduttore di calore non si comprende come la sottile crosta oceanica (che presenta uno spessore di neanche 10 Km) possa mantenere la propria consistenza rigida (da cui la fragilità che determina i terremoti) per le decine di milioni di anni necessari per immergersi fino a 700 Km di profondità!
Di fronte a tali incongruenze, la fama dell’autore non basta a sostenere la credibilità della teoria, eppure, è proprio questo che è avvenuto: infatti, qualche anno dopo la pubblicazione di detta teoria, un altro eminente geologo basava su di essa e sulla teoria sulla deriva dei continenti una nuova ipotesi scientifica, nota oggi come teoria sulla tettonica delle placche, in forza della quale, da quasi mezzo secolo i geologi di tutto il mondo si arrovellano inutilmente per spiegare i meccanismi della fisiologia del nostro pianeta.
E quanto grave sia questo fatto è facilmente comprensibile considerando che dai suddetti meccanismi dipendono non solo la formazione della crosta terrestre (oceanica e continentale), ma anche tutti i fenomeni che si manifestano nella struttura di tale crosta (terremoti e vulcani) e all’interno delle masse fluide che la circondano (oceani ed atmosfera).
Pertanto, sui meccanismi della fisiologia della Terra dobbiamo appuntare la nostra attenzione con occhi nuovi, attenti più alla realtà delle cose che alle autorevoli disquisizioni che piovono dall’alto.

Il prezzo dei titoli accademici

[dal Bollettino FAAV (organo interno della Federazione delle Associazioni Archeologiche Venete) del 1997]

La scoperta delle ere glaciali

figura da "Il magico mondo degli uccelli" ed. De Agostini

figura da “Il magico mondo degli uccelli” ed. De Agostini

Avendo notato le estese abrasioni visibili sulle rocce di alcune vallate alpine anche a bassa quota, già nel lontano 1795, il viaggiatore inglese James Hutton spiegava il fenomeno con l’erosione prodotta dai detriti trascinati a valle da antichissimi ghiacciai, ipotizzando così l’esistenza, nel passato, di fasi climatiche di lunga durata caratterizzate da clima glaciale, fasi che sole potevano spiegare l’estensione dei ghiacciai sino alle basse quote da lui frequentate.
Lungi dall’interessarsi della cosa se non altro per il gusto di smentire il non addetto ai lavori, che osava intrufolarsi nel loro campo d’azione, gli scienziati del tempo ignorarono sdegnosamente l’ardita ipotesi del viaggiatore inglese destinandola all’oblio.
Nel 1837, il tema glaciazioni fu approfondito e riproposto dallo svizzero Louis Agassiz, un naturalista che, in quanto tale, fu lungamente avversato dagli addetti ai lavori.
Le tenaci ricerche e le argomentazioni di Agassiz, però, alla lunga cominciarono a far breccia sui geologi più giovani e avveduti, finché due di questi, i tedeschi Albrecht Penck ed Eduard Brückner, nel 1909 (ben 114 anni dopo Hutton) riproposero lo stesso tema riconoscendo l’esistenza, nell’era quaternaria, di quattro grandi glaciazioni.
Da specialisti del settore quali erano però, i due geologi ingabbiarono la materia in una struttura teorica tanto rigida e perentoria da tener bloccati ulteriori progressi fino ai primi anni ’60, quando un altro non addetto ai lavori, il giovane paleontologo Cesare Emiliani, scoprì le prove dell’esistenza di un numero di glaciazioni ben più elevato rispetto alle quattro da essi proposte.
Anche il ricercatore italiano dovette sopportare le reprimende degli specialisti; fortunatamente però, il suo tormento fu relativamente breve poiché, già alla fine degli anni ’60, uno specialista in materia, il geologo cecoslovacco George Kukla, confermava le sue osservazioni scoprendo in Cecoslovacchia un deserto fossile dell’era quaternaria, il quale portava le innegabili tracce di una ventina di glaciazioni… E questo… ben oltre 165 anni dopo la pubblicazione dell’ipotesi di James Hutton!
Quanti anni persi alla Scienza perché spesi in beghe e ripicche meschine!
E tuttavia, al dilà della velenosa ostilità del mondo scientifico, i protagonisti di quella lunga odissea ne uscirono fortunatamente incolumi.

L’igiene dei chirughi

Decisamente più amaro fu invece l’epilogo della vicenda scientifica di Ignaz Philipp Semmelweiss, giovane medico ungherese operante nella prima metà dell’800 nella clinica universitaria di Vienna: confrontando la bassa mortalità per setticemia post partum delle donne ricoverate negli ospedali normali rispetto a quella altissima, che si verificava nella sua clinica, dove i professori passavano dalle autopsie sui cadaveri ai cesarei senza adottare alcuna precauzione, intuì la necessità di curare al massimo l’igene personale dei chirurghi e la sterilizzazione degli strumenti, dandosi poi da fare per diffondere la sua scoperta.
Non l’avesse mai fatto! Infuriati per le ardite teorie del giovane medico, il quale di fatto addossava loro la responsabilità di tante morti, gli accademici gli fecero una guerra spietata, riuscendo alla fine a farlo internare in manicomio, dove in breve morì, colpito da setticemia causata, sembra, dai maltrattamenti subiti.
Il tempo, però, è galantuomo, così, dopo anni ed anni di dispute scientifiche, la verità riuscì ad affermarsi: ma a quale prezzo! Quante vite sacrificate dall’insipienza di primari boriosi, ostili alle novità!
Ma questi non sono che alcuni degli innumerevoli episodi in cui, in tutti i tempi e in tutti i campi dello scibile, i vertici del mondo scientifico hanno osteggiato pervicacemente il progresso della Conoscenza, e tali episodi danno chiaramente l’idea di quanto esiziali possano essere la presunzione e l’ottusità di certi individui!

Anche gli accademici sono uomini

Viene da chiedersi, allora, a quali livelli sarebbe oggi la Conoscenza in tutti i campi se, anziché perdersi in sterili diatribe a casa della mancanza di titoli da parte degli autori di alcune scoperte scientifiche, gli addetti ai lavori le avessero subito verificate ignorando i formalismi e magari rallegrandosi per i vasti orizzonti, che queste potevano aprire alle loro ricerche!
A parziale giustificazione di quell’ottuso atteggiamento, va detto che anche gli scienziati sono uomini, pertanto, appare naturale che alcuni di essi soffrano per le intuizioni geniali di altri mentre essi rimangono al palo; in secondo luogo, essi sono degli specialisti, perciò è comprensibile che non sempre possano avere, delle cose, quella visione dall’alto, che consente di inquadrare compiutamente e spesso di risolvere i grandi problemi…. Assolutamente non giustificabile, invece, è l’atteggiamento di quanti temono l’affermazione di idee, che contraddicono le convinzioni sulle quali essi hanno costruito la loro carriera… e le osteggiano!
In realtà, più che un vantaggio, la specializzazione è sovente un handicap, in quanto è uno strumento complesso e delicato, che da una parte dà molto e dall’altra toglie pure molto: essa, infatti, “è il fenomeno che ha consentito agli struzzi di diventare i più grandi uccelli viventi oggi sulla Terra ma, allo stesso tempo, ha tolto loro la capacità di volare”!

I “non specialisti”

A questo punto, qualcuno si chiederà dove voglia andare a parare con questo lungo discorso.
La risposta mi pare ovvia: se accolte dagli specialisti, le intuizioni multidisciplinari dei non specialisti potrebbero a volte (cioè non sempre) favorire in modo determinante il progresso della Scienza.
Ma chi sarebbero questi non specialisti?
I non specialisti sono Persone appassionate, animate da grande curiosità in tutti i campi, le quali, avvalendosi delle loro conoscenze disparate, sono in grado di volare alto, riuscendo talvolta (e sottolineo talvolta) a cogliere il quadro generale dei problemi, come non potrebbero mai fare coloro, che tengono sempre l’occhio attaccato al microscopio.

Parola di premio Nobel

A quanti, fra gli Addetti ai lavori di ogni disciplina scientifica, non piace l’intrusione degli Appassionati nei campi che essi ritengono di loro esclusiva competenza, si raccomanda di tenere presente che:
Nel Natale 2009, il Nobel per la Fisica Carlo Rubbia afferma-va:
« La Cultura appagata porta al ristagno della Scienza: è la Curiosità che produce Progresso! »

Riguardo poi alle croniche difficoltà nei rapporti fra Accade-mici ed Appassionati, appare estremamente istruttivo quanto affermava Maurice Allais, Nobel 1988 per l’Economia:
«Io sono un autodidatta, dilettante in tutti i campi, il che si-gnifica “appassionato”… Gli Appassionati danno continua-mente sui nervi ai Professionisti… e questo è naturale. Essi però hanno un grande vantaggio sugli Addetti ai lavori: sono indipendenti, non sono condizionati dal sistema educativo scolastico, dalle tradizioni accademiche, dalle loro norme o dai rapporti di forze esistenti… Quello che conta in loro, e che li distingue, è l’intuizione creativa!»

Ebbene, forti di tali autorevoli espressioni, quando troviamo qualcosa che non quadra nei dogmi della Scienza, ci sentiamo incoraggiati a cercare e a studiare, andando anche contro cor-rente, per giungere a delle risposte finalmente soddisfacenti circa i nostri dubbi, dopo di che, confrontate le nostre idee con quanti sono disposti a discuterne, ci riteniamo in dovere di pubblicare i risultati dei nostri studi, affinché altri possano in-tervenire con osservazioni od obiezioni oppure avvantaggiarsene nelle loro ricerche.