Clima 12 –  Il controllo del clima: un’utopia? Forse no.

(sintesi di alcuni articoli pubblicati sul Giornale di  Vicenza nel 1990)

Abbiamo terminato l’articolo precedente parlando di alberatura di quante più possibili superfici in grado di riverberare il calore del Sole sull’aria soprastante. Sappiamo però che anche i deserti contribuiscono allo stesso modo al riscaldamento globale, ma come rimediare a tale enorme inconveniente?

 

Pittura rupestre che attesta come, nel periodo Neolitico, il Sahara fosse ricoperto dalla savana, nella quale, oltre agli innumerevoli animali tipici di quell’ambiente, trovavano ampio spazio anche gli uomini coi loro armenti.

Fg. 1.  Pittura rupestre che attesta come, nel periodo Neolitico, il Sahara fosse ricoperto dalla savana, nella quale, oltre agli innumerevoli animali tipici di quell’ambiente, trovavano ampio spazio anche gli uomini coi loro armenti.

Ebbene, anche in questo campo si potrebbe fare qualcosa di utile, ma occorreranno volontà politica a livello globale, studi approfonditi e… tempi lunghi, purtroppo: già da decenni, infatti, in certe regioni del globo, l’Uomo impiega risorse ed energie nel tentativo di arginare l’avanzata dei deserti, ma senza successo…

Il fatto è, che risulta facilissimo desertificare un territorio ma è estrema-mente difficile poi invertire la tendenza[1], tuttavia, come nel caso del Sahara, se in passato il territorio era ricoperto dalla savana, la situazione forse non è  del tutto disperata: oltre alle cause ambientali che abbiamo affrontato in CLIMA 7, infatti, dietro alla desertificazione dei un territorio c’è spesso la cattiva condotta dell’Uomo, condotta che bisognerà modificare per renderla compatibile con le esigenze dell’ambiente[2].

Foglie di Ailanto.

Fg. 2.   Rametto di Ailanto.

Da subito, dunque, sarebbe auspicabile incrementare le opere di bonifica dei deserti partendo dalle aree incolte lungo le coste, dove i terreni possono godere dell’umidità portata dalle brezze marine, e dove tuttavia, andrebbero usate essenze vegetali sgradite agli erbivori per scoraggiare la pastorizia[3].

Un ottimo esempio di tali essenze è dato dall’Ailanto (Ailanthus altissima), una pianta legnosa a rapida crescita, le cui foglie (foto a lato), triturate (masticate), sono talmente maleodoranti (e disgustose) da scoraggiare gli erbivori dal cibarsene[4]; ebbene, oltre ad una notevole capacità di fissare il terreno grazie alla sua attitudine a diffondersi rapidamente per propaggine[5], tale pianta presenta una elevata resistenza alla siccità grazie alle risorse idriche che riesce ad accumulare in rigonfiamenti simili a tuberi diffusi nell’apparato radicale.

Partendo dunque dalle zone più favorevoli ed associandola ai vegetali già in uso, la copertura boschiva ad Ailanto (o di essenze simili) porterebbe verso il deserto la frescura e l’umidità utili alla diffusione di erbe ed arbusti colonizzatori i quali, se difesi dalla distruttiva voracità degli erbivori domestici, coi loro cascami consentirebbero la formazione dello strato di humus indispensabile all’esistenza di vegetali utili alla rigenerazione del territorio.

Abundantia africana. Bronzetto della collezione Verità.

Fg. 3.  Abundantia africana. Bronzetto della collezione Verità.

Ovviamente, per non ripetere gli errori del passato, il territorio così bonificato non dovrà mai, in nessun caso, tornare nelle disponibilità dei pastori nomadi ma, qualora se ne verificasse la ripristinata fertilità, dovrebbe semmai essere destinato solo ed esclusivamente all’agricoltura, come avveniva ai tempi dell’antica Roma, la quale in Nordafrica aveva il Granaio dell’Impero come attestano le fonti storiche e come testimonia la statuina della foto a lato denominata Abundantia Africana.

Lasciamo ora l’aridità dei deserti e volgiamo l’attenzione ai grandi fiumi, fonti di inso-stituibili risorse ittiche ma anche di enormi calamità e di indirette interferenze nell’andamento del clima[6].

Nell’articolo precedente, a proposito dello scavo di una trincea sul fondo dei fiumi per mantenerne basso il corso rispetto al livello di campagna al fine di prevenire le alluvioni, alla domanda su cosa si dovesse fare poi dei detriti prodotti dallo scavo, si proponeva di utilizzare quei detriti per innalzare il livello dei terreni rivieraschi più depressi ed esposti alle sempre più frequenti escursioni marine.

Rilevamento radar da satellite del fondale del Golfo del Bengala; si noti l’immensa conoide di detriti al-luvionali che si allunga fino al cuore dell’oceano Indiano (dal Novissimo Atlante mondiale del Touring Club Italiano).

Fg. 4.  Rilevamento radar da satellite del fondale del Golfo del Bengala; si noti l’immensa conoide di detriti al-luvionali che si allunga fino al cuore dell’oceano Indiano (dal Novissimo Atlante mondiale del Touring Club Italiano).

A questo punto, però, si presenterebbe il problema costituito dalla necessità di consentire  il deflusso in mare delle piene dei fiumi: ebbene, non considerando le zone in cui il livello del territorio è sensibilmente più alto di quello dell’oceano, per cui il problema è già risolto dalla Natura con gli Estuari (come ad esempio, quello della Loira), il problema si pone là, dove il livello della fascia litoranea è inferiore rispetto a quello della massima marea: ebbene, anche qui la Natura ha provveduto a modo suo e lo ha fatto ampliando a dismisura gli alvei alla foce fino a formare dei grandi Delta, come nel caso del Po, la cui foce compensa la poca profondità con la vastità degli sbocchi in mare.Naturalmente, il graduale abbassamento del letto dei fiumi non dovrebbe mai (e ripeto mai) scendere ad un livello inferiore a quello raggiunto dalla superfice dei mari con l’alta marea, e questo per non consentire all’acqua salata di penetrare a fondo nella terraferma inquinando le falde e sterilizzando i terreni.

In questo caso, però, non sempre la vastità del delta riesce a garantire il completo deflusso della portata massima dei fiumi, così, per evitare che la Natura provveda alla bisogna allargando ulteriormente l’ampiezza del delta a scapito dei territori antropizzati, è giocaforza ricorrere alla costruzione degli argini: questi però, per non doversi innalzare troppo rispetto al livello di campagna (ricordiamo che più gli argini sono alti, più aumentano i rischi di un loro cedimento e, di conseguenza, più gravi sono gli effeti dell’alluvione) dovrebbero correre ad una buona distanza dal corso d’acqua per lasciare più spazio possibile alle acque di piena, così da risparmiare al territorio circostante le onerose servitù derivanti dalla formazione dei cosidetti bacini di laminazione.

Ebbene, oltre a limitare i pericoli derivanti da  straripamenti catastrofici, se praticato a livello globale specialmente sui grandi fiumi, il recupero dei detriti alluvionali potrebbe consentire di ottenere, in tempi relativamente brevi, il materiale per innalzare il livello dei litorali dei Paesi più minacciati dalla trasgressione marina (Paesi come il Bangladesh, per intenderci, il cui livello sul mare sta progressivamente diminuendo ed i cui fragili litorali sono oggetto di crescente erosione).  Inoltre, fatto non ultimo per importanza, il recupero dei detriti alluvionali dei fiumi potrebbe contribuire a limitare l’innalzamento del livello degli oceani, innalzamento che, bisogna dirlo, è causato non solo dalla dilatazione termica delle acque dovuta al cosidetto riscaldamento globale[7], ma è provocato anche dalla immissione nei mari e negli oceani di incalcolabili quantità di detriti[8].

Quanto ciò possa essere vero è dimostrato dalle immense conoidi di deiezione presenti negli oceani davanti alle foci dei grandi fiumi della Terra, come la conoide formata dal Gange e dal Brahmaputra, ad esempio, la quale sta progressivamente interrando il Golfo del Bengala.

Riuscire a limitare la trasgressione marina su vastissime aree litoranee del pianeta significherebbe contenere l’aumento in atto dell’evaporazione delle acque[9], influendo in tal modo positivamente sul rapporto di scambio energetico tra la superfice del pianeta e l’atmosfera.

Ebbene, questi provvedimenti costituiscono per ora tutto ciò che potremmo fare per difenderci dalle conseguenze della degenerazione del clima; non è moltissimo, tuttavia potrebbe servire a ritardare l’Apocalisse (così è stato definito da valenti studiosi il prossimo futuro del nostro pianeta a causo dell’eccessivo riscaldamento del clima), quando centinaia di milioni di persone, non più disposte a morire di fame nel deserto, si muoveranno alla disperata ricerca di cibo e di risorse, rinnovando le devastanti migrazioni, che nei passati millenni hanno distrutto imperi potenti e civiltà raffinate.

A queste terrificanti prospettive però, forse c’è rimedio, sempre che l’Umanità conceda a sé stessa il tempo necessario: dato che il clima terrestre è in gran parte determinato dal gioco delle correnti, ebbene, mettiamo mano a queste correnti!

Con calma, però!… Ché non facciamo la fine dell’apprendista stregone!… E, soprattutto, dobbiamo studiare interventi reversibili!

Dire quali potranno essere questi interventi in teoria non è difficile, essi però dovranno essere verificati preventivamente con studi seri su modelli matematici e fisici, per la cui realizzazione bisognerà raccogliere montagne di dati.

Comunque, la soluzione dei problemi climatici della Terra potrebbe essere questa: aprire dei vasti canali di comunicazione fra gli oceani[10] e dotarli di chiuse regolabili, in modo da consentire l’assoluto controllo del flusso e la reversibilità della funzione.

Ad esempio, portando la larghezza del Canale di Suez ad almeno 20 km e la sua profondità ad almeno 50 m, grazie alla spinta della Corrente dei Monsoni (Oceano Indiano) nel Mediterraneo orientale si dovrebbe verificare una discreta immissione di acque calde dal Mar Rosso: se consideriamo che le acque superficiali di questo mare hanno una temperatura minima invernale di 21 gradi  (contro i 16-17 del Mediterraneo orientale) ed una massima estiva di 33 gradi (contro i 25 – 27 del Mediterraneo orientale) l’immissione nel Mare Nostrum di tali acque dovrebbe garantire in tutte le stagioni, ma soprattutto in quella fredda, un innalzamento della temperatura superficiale sufficiente al rafforzamento della naturale vocazione ciclonica del nostro mare, vocazione contrastata oggi dalle fresche risorgive fertili generate dalle vaste aree vulcaniche sottomarine presenti nel Mediterraneo orientale e nel Tirreno.

Correnti Mar ROssoÈ chiaro che l’intervento prospettato per l’Istmo di Suez non garantirebbe al cento per cento il controllo sul clima nel Bacino Mediterraneo, tuttavia, potrebbe portare benefici effetti su un’area vastissima: nella stagione invernale, ad esempio, potrebbe produrre una consistente area depressionaria che, disaggregando la fascia sudoccidentale dell’Anticiclone Russo, consentirebbe alle perturbazioni atlantiche di riportare con regolare frequenza la neve sulle Alpi e la pioggia sul Meridione dell’Europa e sul Nordafrica[11].

Il procedimento prospettato potrebbe produrre benefici effetti anche nella stagione calda, poiché la Depressione Mediterranea (che verrebbe così a formarsi) si frapporrebbe tra l’Anticiclone del Mar Rosso e quello delle Azzorre interrompendone la micidiale continuità, e produrrebbe quella instabilità atta a favorire la formazione in loco, o l’arrivo dall’Atlantico, di perturbazioni che, riportando le piogge estive, potrebbe forse consentire il ritorno della Savana nel Sahara; proprio come avveniva, secondo le pitture rupestri del Tassili, fino a 4,500 anni fa.

«Ottimo! – si dirà – ma… il resto del mondo

Per il resto del mondo il discorso è simile, solo che si tratterebbe di intervenire sulla portata della Corrente del Golfo… «Una bazzecola!» si dirà…. È vero, a prima vista la faccenda sembra complicata… ma in realtà sarebbe fattibile, sempre che i Grandi della Terra ne comprendano l’utilità.

Come abbiamo visto in CLIMA 2, 4 e 5, la fascia centrale dell’Atlantico è percorsa da Est ad Ovest dalla possente Corrente Equatoriale Atlantica, la quale, urtando contro la piattaforma continentale del Nordest del Brasile, si divide in due rami: di questi, uno si dirige a Sud formando la Corrente Brasiliana mentre l’altro si infila nel Mare dei Caraibi, puntando sul Golfo del Messico dove le sue acque fanno il pieno di energia termica sotto il Sole dei Tropici, energia che poi la Corrente del Golfo porta nel Nordatlantico per alimentare la Depressione d’Islanda, per mitigare il clima del Nordeuropa e per aggredire la Calotta artica.

Ebbene, come abbiamo detto, al momento della sua uscita dal Golfo del Messico, passando per lo stretto della Florida tale Corrente ha una portata di ben quattro kilometri cubi d’acqua al minuto ed una velocità di otto Kilometri all’ora: da dove le giunge tutta quell’acqua e quella velocità di marcia?

La risposta è data dalla pressione prodotta dalla spinta esercitata dal ramo Nord della Corrente Equatoriale al momento del suo ingresso nel Golfo del Messico, spinta incontenibile, che produce una pressione capace di imprimere poi una accelerazione da zero a otto Km/ora alla immane massa d’acqua in uscita dallo Stretto della Florida.

Dunque, per mettere sotto controllo la portata della Corrente del Golfo, portata cresciuta negli anni tanto da influire pesantemente sul clima del Comprensorio Nordatlantico e sullo scioglimento della Calotta Artica (si riveda CLIMA 6) occorrerebbe allargare il Canale di Panama in modo analogo a quello previsto per il Canale di Suez, compreso il grande ponte munito di chiuse regolabili.

In tal modo, attraverso il nuovo canale sarebbe possibile lasciar defluire verso il Pacifico la portata in eccesso della Corrente del Golfo, per mantenere l’influenza climatica di questa ad un livello accettabile.

E qui sorgerebbero le complicazioni: accetterebbero, gli Stati del Nordeuropa, di rinunciare ai benefici sul loro clima derivanti dall’aumentata portata termica in atto da parte della Corrente del Golfo?

BrecciaSuPanamaD’altra parte però, l’acqua calda in eccesso fatta defluire verso il Pacifico potrebbe mitigare la fresca temperatura diffusa sulla superfice dell’oceano dalle risorgive fertili attive in zona, influendo così positivamente sul clima arido che affligge le coste di quell’area (soprattutto le coste del Perù) senza tuttavia com-promettere la pescosità di quelle acque, poiché anche le Correnti Atlantiche sono fertili.

Qualche Paese (soprattutto il Giappone, le Filippine e in certa misura anche l’Australia) potrebbe temere un certo rafforzamento delle cor-renti calde che innescano i temibili Tifoni che affliggono il Pacifico occidentale, tuttavia, forse i vantaggi derivanti all’intero pianeta dall’operazione potrebbero alleviare quei timori: l’alleggerimento della pressione idrostatica all’interno del Golfo del Messico, infatti, potrebbe favorire un rafforzamento della Corrente dei Caraibi a spese di quella Brasiliana, la quale, così dimagrita, alleggerirebbe il suo apporto termico nella Corrente Circumantartica, a tutto vantaggio della conservazione della Calotta glaciale del Continente Antartico e dei ghiacciai montani dell’Emisfero Sud.

Nel frattempo, con l’alleggerimento della Corrente del Golfo, nell’Emisfero Nord si potrebbe ottenere un ritorno delle condizioni climatiche ai livelli ritenuti ottimali di inizi ‘novecento: ciò favorirebbe il ritorno dei ghiacciai sulle montagne ed il ritorno in salute della Calotta Polare Artica, col vantaggio di aumentare le superfici riflettenti l’energia solare e di diminuire di conseguenza le superfici che trasmettono calore all’atmosfera.

Inoltre, trattenendo sulla terraferma masse crescenti d’acqua con lo sviluppo dei ghiacciai continentali, il livello dei mari e degli oceani cesserebbe di aumentare per finire poi col diminuire, salvando così dal pericolo della sommersione aree del globo vastissime e fittamente popolate. Ma non solo, il ritiro delle acque ridurrebbe la superfice di evaporazione di mari ed oceani, togliendo in tal modo carburante alle grandi perturbazioni che attualmente affliggono vastissime aree del pianeta…

Infine, il riequilibrio climatico potrebbe ridurre i pericoli per la Pace paventati in un mio articolo pubblicato l’11 dicembre 1977 sul Giornale di Vicenza in seguito ai malumori emersi dallo storico Convegno Internazionale sul Clima tenutosi in quei giorni a Kioto, articolo che portava lo stesso titolo di quello che andiamo a pubblicare in Clima 11: Effetto Serra fa rima con guerra?

 

 


Note 

[1] Quando un terreno è denudato, le intemperie hanno buon gioco nel dilavarne le componenti a grana sottile ricche di nutrienti minerali ed organici che gli danno consistenza e fertilità, cosicché, quando è reso sabbioso, esso non offre più l’ambiente idoneo all’attecchimento dei semi. Se a ciò si aggiunge il calore eccessivo dell’ambiente e la scarsità di acqua, il problema diventa estremamente duro da risolvere.

[2] Mi riferisco in modo particolare alla pastorizia praticata in modo intensivo, a sostegno del prestigio individuale legato al numero degli animali posseduti, anche se questi sono ridotti a pelle e ossa dall’incipiente desertificazione.

[3] In Nordafrica, le capre domestiche sono lasciate libere di arrampicarsi persino sugli alberi per nutrirsi delle loro foglie: ovviamente, tale pratica è quanto di più dannoso si possa fare per la salute del territorio.

[4] Disseminata dagli uccelli nell’isola di Montecristo abitata da una folta colonia di capre selvatiche che si nutrono di tutto ciò che trovano, grazie al suo sapore sgradito questa pianta, rifiutata dagli erbivori, è diventata la spece vegetale dominante sull’isola (la foto è tratta da “Riconoscere gli alberi” di Roger Phillips).

[5] Importato nell’800 dalla Cina come pianta ornamentale, l’Ailanto si comporta come una pianta infestante, capace di colonizzare qualsiasi terreno, anche quello che, per l’aridità, sembra negato ad altre infestanti quali la Robinia.

[6] Detta interferenza indiretta deriva dall’incessante opera di riempimento dei bacini oceanici con detriti alluvionali da parte dei fiumi, riempimento che sta provocando l’innalzamento di livello e quindi l’estensione di mari ed oceani a scapito delle superfici emerse.

[7] Al dilà di quanto riferiscono gli allarmismi, detta dilatazione si limita alle basse latitudini e solo al lieve strato superficiale dei mari e degli oceani, perché l’energia solare non penetra nelle acque per più qualche decina di metri.

[8] Il processo è lo stesso che avverrebbe versando della terra all’interno di un recipiente pieno d’acqua: riducendo la capacità del recipiente, infatti, l’immissione di terra fa  tracimare l’acqua… Del resto, il fenomeno si è già verificato nel passato, soprattutto nel lungo periodo Cretaceo, quando l’erosione ha demolito in gran parte le montagne, i cui detriti, trasportati dai fiumi in mare, ne hanno innalzato il livello causando l’allagamento di enormi distese continentali, le quali furono trasformate in mari epicontinentali di modestissima profondità che, come vedremo, hanno contribuito al riscaldamento del clima e i cui sedimenti hanno dato poi origine ai calcari compatti tipici, appunto, del Cretaceo.

[9] La scarsa profondità delle acque consente all’energia solare di raggiungere il fondale, dove si trasforma in energia termica che favorisce l’evaporazione dell’acqua molto più che nei mari profondi e negli oceani. Ed è la forte evaporazione che alimenta poi le grandi precipitazioni atmosferiche.

[10] In realtà, già nel passato (si parla di parecchie migliaia di anni fa) gli oceani sono stati a lungo collegati fra di loro, quando le sottili barriere che oggi li separano erano sommerse, sconvolgendo le rotte delle correnti oceaniche.

[11] Ed è appunto questo che avveniva in passato, quando l’istmo di Suez era sommerso consentendo alle acque del Mar Rosso di riscaldare la superfice del Mediterraneo orientale, così da richiamare le perturbazioni dal Nordatlantico, che con le loro piogge consentivano la presenza della Savana nell’attuale Sahara e la ricca produzione agricola nei Paesi del Meridione mediterraneo che costituivano il Granaio dell’Impero Romano.