Archivi categoria: Clima

El Niňo e la morte dei coralli

Fg. 1: Le barriere coralline, che prosperano in acque pulite e ricche di nutrienti, ospitano una varietà infinita di organismi meravigliosi.

Fg. 1: Le barriere coralline, che prosperano in acque pulite e ricche di nutrienti, ospitano una varietà infinita di organismi meravigliosi..

L’idea che, a provocare la Morte dei Coralli, sia l’aumento della temperatura delle acque causato dal famigerato Riscaldamento Globale, è ormai accettata universalmente, tanto che la si trova riportata nero su bianco in tutti i testi più recenti di Geografia Fisica.

In detti lavori, però, la spiegazione dei fenomeni appare alquanto nebulosa e talvolta contraddittoria, quasi che, intuendo forse l’inconsistenza della teoria, gli Autori si sentano tuttavia obbligati a sostenerla in qualche modo poiché essa è la sola accettata universalmente(1).
A suffragio di detta teoria, vari Autori portano l’esempio della nefasta influenza, che i coralli subirebbero dall’avvento del fenomeno detto El Niño(2) combinato con l’ENSO (l’Oscillazione della pressione atmosferica nell’area centro-meridionale del Pacifico), e lo fanno con date precise e col nome di luoghi in cui sono avvenuti lo sbiancamento e la morìa dei polipi corallini.
Uno di quei casi sarebbe avvenuto nei mesi a cavallo degli anni 1982-83, quando, oltre a violenti sconvolgimenti climatici in tutto il globo definiti i più disastrosi in epoca storica, ed oltre ad estese morìe di pesci e uccelli, El Niño avrebbe causato lo sbiancamento e la morte dei coralli fin lungo le isole dell’Oceano Indiano, e tutto ciò spingendo, su una fascia del Pacifico equatoriale lunga 12.800 Km, una vasta ondata di acqua calda con temperature fino a 8°C superiori a quelle normali!
E allora viene da chiedersi: “Ma quelle temperature definite “normali” sono veramente normali?”
Una situazione simile a quella, che abitualmente avviene nel Pacifico in assenza del Niño, si verifica anche nell’Atlantico dove, proprio in corrispondenza del percorso della Corrente Equatoriale, la temperatura superficiale dell’oceano presenta una diversità di ben 9 gradi fra quella fresca rilevata abitualmente nella parte Est dell’oceano (appena 16 gradi) rispetto a quella calda rilevata ad Ovest (25 gradi), e ciò fa pensare che i due fenomeni, così simili, non siano dovuti ad una fortuita coincidenza…
E dunque viene da chiedersi: quale sarebbe la temperatura da ritenere normale per quelle aree dei due oceani interessate da quei fenomeni?… È la temperatura più fresca rilevata ad Est oppure è quella più calda ad Ovest?
Per rispondere alla domanda, occorre ricordare che le temperature superficiali degli oceani sono spesso alterate dal rimescolamento delle acque prodotto dalle correnti, cosicché, per avere una risposta credibile, bisogna confrontare le temperature in oggetto con quelle rilevabili nei bacini marini non disturbati dalle correnti: ebbene, in area tropicale, detti tranquilli bacini presentano valori di temperatura superficiale compresi fra i 26 e i 28 gradi.
Dunque, appare evidente che, nella fascia tropicale, le temperature da considerare normali sono sicuramente quelle più alte!… Pertanto, se nel settore Est della fascia tropicale del Pacifico, la temperatura delle acque è abitualmente inferiore a quella che normalmente dovrebbe essere sotto l’azione del Sole, è evidente che è tale situazione che costituisce una anomalia termica, benché essa sia un fatto abituale, mentre il ritorno alla temperatura più calda col Niño costituisce un ritorno alla normalità, benché esso sia un evento temporaneo.
Di tutto questo, però, sembra che gli Studiosi non si rendano conto…

Fg. 2  Nella fascia tropicale dell’oceano Pacifico è evidenziata con due tonalità di rosa l’area interessata da El Niño, il fenomeno oceanico considerato una dannosa corrente calda.

Fg. 2 Nella fascia tropicale dell’oceano Pacifico è evidenziata con due tonalità di rosa l’area interessata da El Niño, il fenomeno oceanico considerato una dannosa corrente calda.

L’equivoco nasce dal fatto che, considerando normale lo stato abituale delle temperature superficiali degli oceani rilevate mediante i satelliti, appena questo stato si modifica, viene considerato una anomalia. E ciò benché le acque del Niño raggiungano i 28 gradi, che costituiscono la temperatura normale per quella latitudine quando l’area non è disturbata dalla “fertile” e fresca Corrente Equatoriale (la cui temperatura iniziale è abitualmente di soli 18-19 gradi)..
In tal modo, essi rappresentano con un medesimo tono di colore le diverse situazioni termiche abitualmente presenti nel Pacifico (si veda, nella figura 2, l’omogenea tonalità azzurrina che ricopre tutti gli oceani non evidenziando le innegabili diversità di temperatura rilevate dalle isoterme nella figura 3) diversità dovute alla varia inclinazione dei raggi solari sulla superfice oceanica alle diverse latitudini, ed evidenziano invece con varie gradazioni di rosso il saltuario ritorno della normalità termica dovuta al Niño nella fascia tropicale del Pacifico, producendo così la fuorviante impressione di un surriscaldamento abnorme della medesima area, impressione, alla cui suggestione sembra che gli inconsapevoli Studiosi non sappiano sottrarsi, tanto che nessuno di essi si chiede mai: “Ma surriscaldamento dovuto a cosa, se nei diversi settori della superfice oceanica posti alla medesima latitudine, il Sole picchia con la stessa intensità?

fg. 3  Le diverse temperature della superfice degli oceani sono perfettamente note alla Scienza e accuratamente mappata: perché, allora, non vengono evidenziate con tonalità diverse di colore in modo da non ingenerare equivoci e inammissibili fraintendimenti?

fg. 3 Le diverse temperature della superfice degli oceani sono perfettamente note alla Scienza e accuratamente mappata: perché, allora, non vengono evidenziate con tonalità diverse di colore in modo da non ingenerare equivoci e inammissibili fraintendimenti?

Anche su internet troviamo che uno Studioso di una prestigiosa Università americana(2) attribuisce allo stesso episodio del Niño del 1998, la moria di coralli che colpì l’arcipelago delle Maldive e molte altre aree dell’Oceano Indiano.
Ebbene, tale ipotesi sembra alquanto azzardata, poiché, oltre alla sterminata distanza esistente fra le isole dell’Oceano Indiano e l’area di origine del Niño, lo stesso oceano è separato dal Pacifico dalla possente barriera costituita dagli arcipelaghi delle Filippine e dell’Indonesia; dunque, appare verosimile che la moria di coralli negli arcipelaghi indiani sia una semplice coincidenza con l’avvento del Niño nel Pacifico, coincidenza dovuta a cause locali prodotte dal fatto, che anche quelle isole dell’oceano Indiano sono di origine vulcanica, così come i menzionati arcipelaghi indonesiano e filippino che le proteggono dalle correnti del Pacifico, i quali sono entrambi ricchissimi di vulcani attivi fra i più temibili al mondo(3) .
Quanto sia confusa quella teoria è suggerito da ciò che scrivono altri Autori, i quali, sostenendo la medesima tesi circa l’influenza del Niño sulla decadenza vitale dei coralli, riguardo alla connessione fra El Niño ed ENSO dicono però che: «Sebbene la connessione non fosse sempre rilevabile, tutti questi avvenimenti furono attribuiti alla combinazione El Niño/ENSO»… Dunque, la mancata rilevazione di detta connessione lascia intendere che l’attribuzione di colpa a El Niño è quantomeno arbitraria, frutto di opinioni personali non suffragate da prove scientifiche.

Fg. 4  Ipotesi ufficiale del fenomeno del Niño.

Ma quale potrebbe essere la causa che dà origine al Niño? Da molti anni, l’ipotesi prevalente sembra essere quella che incomprensibilmente indica i colpevoli nei venti Alisei (fg. 4 sopra) i quali, scavalcando da est la Catena Andina dell’Equador e del Perù, produrrebbero ad Ovest di queste una sorta di vuoto simile a quello che si forma dietro le automobili veloci, vuoto che risucchierebbe verso la superfice acque abissali fredde e ricche di nutrienti minerali, le quali, spinte verso Ovest dalla persistente azione degli Alisei, darebbero origine alla fresca e fertilissima Corrente Equatoriale del Pacifico, quella che i pescatori equadoregni e peruviani chiamano La Niña…
Quando, dunque, per qualche motivo gli Alisei cessano di soffiare, ad ovest delle Ande non si formerebbe più il vuoto e questo non richiamerebbe più in superfice le fresche e fertili acque abissali che formano la Niña…
Già il fatto che agli Alisei sia attribuita la capacità di produrre, ad Ovest delle Ande, una depressione tale da risucchiare verso la superfice oceanica le fredde acque abissali (pesanti per l’alto contenuto di sali minerali) è una cosa che lascia perplessi: con una velocità media di 5 metri a secondo, infatti, velocità pari a circa 18 Km orari, difficilmente gli Alisei avrebbero la forza di produrre la straordinaria depressione che viene loro attribuita, spece considerando che il loro fronte di azione è diviso dalla larga fascia definita equatore termico, al cui interno gli Alisei si riducono a deboli brezze o addirittura cessano del tutto.
Ma poi, se fossero gli Alisei il motore che forma la Niña e la spinge verso Ovest, quale dovrebbe essere la forza che darebbe origine a quella che è definita la “vasta ondata di acqua calda che, inoltrandosi nel Pacifico equatoriale“ formerebbe El Niño? Certamente, non la forza di venti occidentali contrari agli Alisei, perché quei venti si muoverebbero in direzione opposta a quella attribuita al Niño, e dunque? La domanda sembrerebbe destinata a non avere risposta!

Fg 5 Si noti l'alta concentrazione di vulcani fra Galapagos, Equador e Perù.

Fg 5 Si noti l’alta concentrazione di vulcani fra Galapagos, Equador e Perù.

C’è anche un’altra domanda che richiede una spiegazione seria: poiché l’imponente Cordigliera delle Ande costeggia tutta la sponda sud-americana del Pacifico, perché mai solo in corrispondenza della costa equadoregna e peruviana si verificano i fenomeni detti el Niño e la Niña?… Cosa c’è su quel limitato tratto di costa che non esiste su tutto il resto della sponda sudamericana del Pacifico?

La risposta è semplice: lungo quella costa, c’è una straordinaria concentrazione di grandi vulcani attivi (tanto che sulle Ande equadoregne se ne contano più di 50) e i vulcani sono numerosi anche al largo di essa, in corrispondenza del vicino Arcipelago delle Galapagos.
Ebbene, alla base di quelle due estese concentrazioni vulcaniche è abitualmente attivo un vastissimo apparato idrotermale, il quale vomita negli abissi acque caldissime arricchite di nutrienti minerali.
Data la loro altissima temperatura iniziale (intorno ai 400°), quelle acque schizzano verso l’alto disperdendo per via calore e nutrienti, coinvolgendo così nella risalita masse crescenti di altra acqua fertilizzata, la cui temperatura però decresce in proporzione inversa al loro volume, cosicché alla fine esse presentano una temperatura inferiore rispetto a quella delle acque superficiali riscaldate dal Sole: attardandosi però per inerzia rispetto alla rotazione terrestre, le fertili acque risalite dagli abissi scorrono sotto le calde acque superficiali, alle quali si mescolano poi per attrito abbassandone la temperatura e trascinandole con sè verso Ovest.

Fg 6  Il Plancton costituisce la delicatissima base su cui poggia tutta la catena alimentare marina: nell'acqua "fertile", il fitoplancton trasforma i nutrienti minerali in sospensione nella sostanza organica di cui si nutre lo zooplancton, ed entrambi forniscono, direttamente o indirettamente, il cibo a tutti gli animali superiori, dal pesciolino più piccolo al più grande predatore... E tutto grazie ai nutrienti minerali trasportati in giro fra mari ed oceani dalle acque "iniettate" negli abissi dai comprensori idrotermale "attivi" collegati ai grandi apparati vulcanici sottomarini o prossimi alle coste.

Fg. 6 Il Plancton costituisce la delicatissima base su cui poggia tutta la catena alimentare marina: nell’acqua “fertile”, il fitoplancton trasforma i nutrienti minerali in sospensione nella sostanza organica di cui si nutre lo zooplancton, ed entrambi forniscono, direttamente o indirettamente, il cibo a tutti gli animali superiori, dal pesciolino più piccolo al più grande predatore… E tutto grazie ai nutrienti minerali trasportati in giro fra mari ed oceani dalle acque “iniettate” negli abissi dai comprensori idrotermale “attivi” collegati ai grandi apparati vulcanici sottomarini o prossimi alle coste.

Risalendo verso la superfice, infatti, le acque abissali si allontanano dall’asse di rotazione terrestre, trovandosi così a dover percorrere nelle 24 ore circonferenze sempre più lunghe rispetto a quella che percorrevano sul fondo degli abissi e questo, tendendo esse a mantenere per inerzia la velocità di rotazione iniziale(4), ne provoca un progressivo attardamento rispetto all’ambiente circostante… Ed è così che ha origine la Niña, la corrente fresca portatrice di vita rigogliosa per le creature del mare e prosperità per la locale industria della pesca.
Dunque, il Vero Motore di questa come di altre Correnti Oceaniche non è costituito dai venti dominanti o da altre fantasiose cause, ma è l’attardamento per inerzia verso ovest delle acque abissali in risalita dal fondo degli oceani!

Quando tuttavia, alla base della su menzionata concentrazione di vulcani, avviene una forte riduzione o addirittura una cessazione dell’attività idrotermale(5), si riduce fortemente o addirittura cessa anche la risalita dagli abissi dell’acqua fertile, cosicché, rimanendo immobile sotto il Sole dei Tropici, la superfice dell’oceano viene riscaldata fino a riportarne la temperatura ai livelli naturali per quella latitudine, mentre la carenza o la mancanza di nutrienti in risalita dal fondo semina strage nell’ambiente sommerso, provocando apocalittiche morìe del plancton, dei pesci che di esso si nutrono e di quelli di cui gli stessi sono preda, e poi degli uccelli che dei pesci si cibano e, infine, anche dei coralli i quali, pur se situati lontanissimi dall’area da cui hanno origine le acque fertili, non ricevendo più il consueto nutrimento deperiscono sbiancandosi per morire poi d’inedia.
Dunque, la vera causa di questa immane tragedia è la stasi delle grandi emissioni idrotermali da parte dei comprensori vulcanici peruviano, equadoregno e delle Galapagos, stasi a cui consegue l’immobilità delle acque evidenziata dal riscaldamento solare della loro superfice: e nasce El Niño!

Note

1 Un comportamento simile da parte degli Studiosi è stato notato anni fa, subito dopo che due noti scienziati dettero al mondo il sensazionale annuncio della realizzazione della “fusione a freddo”: subito, infatti, numerosi loro colleghi vollero ripetere l’esperimento secondo le modalità indicate dagli eroi del momento, e molti di loro riferirono esultanti di esserci riusciti. Dopo qualche tempo, però, essendo stato accertato da Istituti Scientifici seri, che l’esperimento non funzionava, sull’intera faccenda scese il silenzio, e molti sperarono che tutto finisse nell’oblio.

2 Fra tanti altri, tale argomento è riportato anche in un ponderoso volume pubblicato nel 2002 da un paio di Autori di Area anglosassone, Area dalla quale, si sa, provengono le teorie più varie, le quali di regola, dal Mondo Scientifico internazionale vengono accolte con ossequio-sa reverenza, come fossero rivelazioni ispirate dal Celo (e la Scienza italiana non fà eccezione). (NB: non cito mai il nome degli Autori dalle cui teorie dissento per correttezza nei loro confronti, affinché non si sentano attaccati personalmente senza che su queste pagine possa essere loro garantito il diritto di replica).

3 Sulla fondamentale importanza degli apparati vulcanici (spece quelli sottomarini) nella genesi delle correnti oceaniche abbiamo già parlato in altri articoli, comunque, riparleremo della cosa anche in questo.

4 Ovviamente, dovendo muoversi in acque dotate di velocità di rotazione crescente man mano che risalgono dall’abisso, le acque di origine idrotermale ne subiscono in parte il trascinamento, cosicché, giunte alla superfice, esse non conservano la loro bassa andatura iniziale ma sono un po’ meno lente, ed è questa loro lentezza che le fa apparentemente muovere verso Ovest!

5 È possibile che quella riduzione dell’attività idrotermale sia provocata da un forte calo della pressione interna all’apparato vulcanico, calo dovuto verosimilmente allo sfogo della stessa pressione prodotto da qualche prolungata eruzione (sia essa sub-aerea o sottomarina) che si verifica in zona. Questa ipotesi, lo dico per i Professionisti della Ricerca scientifica, meriterebbe una attenta verifica da parte dei Vulcanologi, ai quali non dovrebbe risultare difficile individuare, in quell’area, l’eventuale evenienza di eruzioni vulcaniche (siano esse subaeree o sottomarine) nell’immediata precedenza e in concomitanza con l’avvento del Niño.

Clima 1: cicloni e anticloni, gli scherzi della pressione atmosferica

ciclone1

Vortice sul mediterraneo occidentale

Da molti mesi ormai (siamo a fine maggio del 2014) il tempo fa le bizze in modo incontrollato, sferzando l’Europa con una sequenza interminabile di perturbazioni, che si susseguono con una media di una ogni tre giorni.
E si ha un bel dire che le vaste aree di alta pressione, che si presentano fra una perturbazione e l’altra, dovrebbero stabilizzare il tempo o, quanto meno, frenare l’avanzata del maltempo verso le nostre regioni: rapidamente come si sono formate, quelle aree di stabilità si dissolvono vigliaccamente senza opporre resistenza.
A fronte di tale situazione, viene spontaneo il raffronto col clima straordinariamente mite e asciutto dell’autunno-inverno e della primavera di qualche anno fa, quando, per dare un po’ di speranza al mondo dell’agricoltura in grande allarme per il persistere della siccità invernale e primaverile, i meteorologi mostravano le grandi perturbazioni atlantiche, le quali si avventavano sull’Europa cariche di promesse di pioggia per le nostre regioni, ma che, giunte in vista delle coste mediterranee, viravano sgommando a Nord-Est respinte da una vasta area di alta pressione saldamente ancorata sul mar Tirreno.
E viene spontaneo anche il ricordo della storica e interminabile calura del 2003, la quale oppresse le nostre regioni con temperature insopportabili ed una siccità senza fine provocata da una vasta e robustissima “bolla” di alta pressione che, ancorata sul Tirreno, dominava sul Mediterraneo.
Ma allora, si dirà, per quale motivo quest’anno l’alta pressione non riesce a bloccare il maltempo per restituirci un clima più equilibrato?

ciclone2

Si noti l’immane vortice che interessa tutto il Nord Atlantico: il fatto che sia stabilmente “ancorato” lungo il corso della Corrente del Golfo in un’area poco a sud dell’Islanda ci attesta che si tratta di una “depressione madre”.

Benché non se ne senta mai parlare, la risposta a tale legittima domanda non è difficile ma richiede un po’ di attenzione, poiché si basa su una classificazione delle aree di alta pressione riferita alle diverse modalità che portano alla formazione di dette aree, modalità che determinano la loro resistenza o la loro vulnerabilità rispetto alle perturbazioni.
Contrariamente a quanto affermano i sostenitori della teoria sull’effetto serra, alla base di tutto il meccanismo del clima c’è la temperatura del suolo (cioè della superfice del pianeta, sia essa di terraferma o di mare) temperatura che, se è elevata, provoca il riscaldamento dell’aria soprastante determinandone la dilatazione con conseguente spinta verso l’alto: tale meccanismo, infatti, dà origine tanto ai semplici mulinelli d’aria quanto ai più terrificanti uragani .
In determinati casi, però, quando le condizioni di temperatura sono “ancorate” ad una determinata area geografica, il fenomeno dà origine ad una depressione non violentissima ma molto estesa che, con un’immagine colorata, potremmo definire “depressione madre”, perché dà origine ad una serie continua di vortici ciclonici, i quali si dirigono ad est andando ad investire i territori continentali, sui quali scaricano a ritmo incalzante la loro energia sotto forma di tempeste di vento e di precipitazioni copiose, proprio come avviene da mesi in Europa ad opera della Depressione d’Islanda.
Al contrario, se la superfice al suolo è fredda, anche l’aria soprastante si raffredda, cosicché essa si addensa e, divenendo pesante, si abbassa verso il suolo dilagando poi lateralmente.
Di conseguenza, la discesa di tale massa d’aria risucchia verso il basso l’aria soprastante, dando così origine ad un ampio movimento discendente caratterizzato da una rotazione in senso orario[1], che possiamo immaginare come un enorme gorgo atmosferico[2], gorgo definito dai tecnici “vortice anticiclonico” perché, essendo formato da aria asciutta[3], è in grado di fagocitare o di respingere le perturbazioni.
Ebbene, l’efficacia di tale gorgo anticiclonico è dovuta al fatto che esso è ancorato alla superfice “fredda” che lo ha originato, la quale è in grado di mantenerlo attivo a tempo indeterminato, consentendogli, appunto, di esercitare la sua azione stabilizzatrice anticiclonica per tutto il tempo in cui essa rimane “fredda” (come avviene nel caso dell’Anticiclone delle Azzorre).
Con l’aumento della pressione atmosferica e col conseguente riscaldamento (fenomeni dovuti entrambi alla compressione che avviene nel corso della discesa nel gorgo) l’aria secca proveniente dalle alte quote assume una crescente capacità di assorbire umidità, capacità che le consente di fagocitare le perturbazioni che le si avvicinano sottraendo loro l’umidità delle nubi così da mantenere il sereno; oppure, addirittura, quando il gorgo anticiclonico è veramente potente, la spinta dilagante delle sue masse d’aria riesce a respingere l’avanzata delle perturbazioni costringendole a cambiare la direzione della loro corsa, esattamente come avveniva nei lunghi periodi siccitosi descritti all’inizio.
Ebbene, si dirà, perché non avviene così anche ai nostri giorni? Cosa rende tanto deboli e fugaci i cosidetti “promontori di alta pressione” che si alternano con l’interminabile sequenza delle perturbazioni che ci affliggono da mesi?

Foto da satellite del 22 agosto 2011: si noti la vasta area priva di nubi che interessa tutto il bacino del Mediterraneo mentre le perturbazioni di origine atlantica sono costrette a scorrere a nord delle Alpi, e si noti il vortice situato sul Golfo di Biscaglia, la cui “coda”, penetrata nel Mediterraneo occidentale (la leggera fila di nubi orientata N-S) si sta dissolvendo assorbita dal “gorgo” anticiclonico ancorato sul mar Tirreno, la cui azione stabilizzante si estende ad Oriente grazie ai venti dominanti.

Foto da satellite del 22 agosto 2011: si noti la vasta area priva di nubi che interessa tutto il bacino del Mediterraneo mentre le perturbazioni di origine atlantica sono costrette a scorrere a nord delle Alpi, e si noti il vortice situato sul Golfo di Biscaglia, la cui “coda”, penetrata nel Mediterraneo occidentale (la leggera fila di nubi orientata N-S) si sta dissolvendo assorbita dal “gorgo” anticiclonico ancorato sul mar Tirreno, la cui azione stabilizzante si estende ad Oriente grazie ai venti dominanti.

Quella Cosa è il fatto che i “promontori di alta pressione” non sono “ancorati al suolo” come i gorghi anticiclonici generati dalla bassa temperatura superficiale di determinate aree geografiche, ma sono generati dall’espansione dell’aria asciutta dilagante dai margini di un ampio anticlone e  risucchiata ad opera dei vortici ciclonici attivi nelle vicinanze, tant’è vero, che essi non si producono mai come fenomeni autonomi ma (come suggerisce il nome promontorio) costituiscono sempre una propaggine di un gorgo vero e proprio situato nelle vicinanze; inoltre, la pressione atmosferica al loro interno non è mai molto elevata o, comunque, non raggiunge mai livelli paragonabili a quelli che si possono verificare nel cuore del gorgo che li alimenta: dunque, benché portino condizioni di bel tempo, non essendo ancorati all’area geografica in cui si formano, i promontori di alta pressione vengono trascinati in qua o in là dal risucchio generato dagli spostamenti dei vortici ciclonici.
Dunque, l’azione stabilizzatrice sul clima da parte delle aree anticloniche è condizionata dalla loro genesi, cosicché si ha:

  • alta efficacia e lunga persistenza da parte dei gorghi anticlonici ancorati all’area geografica che, con le basse temperature al suolo, li genera e li mantiene attivi[1].
  • scarsa efficacia, breve durata e mobilità dei promontori di alta pressione (costituiti da aria asciutta proveniente da lontano) attirati dal risucchio prodotto da potenti vortici ciclonici in movimento.

A questo punto, qualcuno si chiederà da cosa dipenda il “raffreddamento al suolo” delle aree geografiche in cui si formano i gorghi anticiclonici più potenti e persistenti.
Ebbene, poiché la risposta a tale quesito richiede un lungo discorso, invito il Lettore a leggere gli articoli che seguono, a partire da quello che porta il titolo Alle origini dei fenomeni climatici.


 

Note

1) Oltre all’innesco iniziale del vortice prodotto dal calore ricevuto al suolo, a determinare l’ingrossamento del vortice stesso fino alle grandi dimensioni è l’energia termica rilasciata nell’aria dall’umidità in essa contenuta, umidità che condensa cedendo calore a causa della progressiva diminuzione della pressione atmosferica dovuta alla risalita in quota.
Ed è appunto tale capacità di autoalimentarsi, che consente agli uragani di muoversi poi in modo indipendente dalle condizioni di temperatura al suolo.2) L’attuale alta frequenza e la violenza di tali “figli” è dovuta all’insolita forza della Depressione d’Islanda, forza generata dal contrasto fra la bassa temperatura che caratterizza le acque del Nordatlantico (spece nei periodi tardo-autunnale, invernale e primaverile) e la straordinaria carica termica trasportata dalla Corrente del Golfo dovuta probabilmente ad un inconsueto aumento della sua portata idrica.
3) Sia la rotazione in senso antiorario dei vortici ciclonici che la rotazione in senso orario dei gorghi anticiclonici sono caratteristiche dell’Emisfero Nord, mentre nell’Emisfero Sud i sensi di rotazione si inverrtono.
4)  Al pari dei gorghi che si formano nell’acqua, questo tipo di vortice anticiclonico presenta un’area centrale ben definita, all’interno della quale la pressione atmosferica è massima, e una vasta area marginale grossomodo circolare, nel cui ambito la pressione diminuisce gradualmente fin sulle fasce di confine con le aree depressionarie, alle quali fornisce l’aria che quelle attraggono
.5) Poiché l’umidità dell’aria è direttamente proporzionale alla temperatura ed alla pressione dell’aria stessa, alle quote elevate, dove la pressione atmosferica e la temperatura sono molto basse, l’umidità dell’aria è minima.
6) E questo spiega perché, in assenza di tali condizioni, le perturbazioni atlantiche possano entrare tanto facilmente nel Bacino Mediterraneo e flagellare con così inusitata frequenza le nostre regioni.
 
[Scarica l’opuscolo:  CLIMA 1  (PDF 0,4 MByte)

Refrontolo: dopo l’ennesima tragedia, bufera di polemiche e indagini

Valdagno 3 agosto 2014

«La Protezione Civile non ci ha avvertito del pericolo!» diceva il sindaco di Refrontolo (TV) intervistato dopo la tragedia abbattutasi sulla Sagra dei Òmeni, ed ora si cerca di capire come il fatto possa essere avvenuto. Ma c’è poco da dire: i Meteorologi avevano segnalato la possibile evenienza di temporali di forte intensità nella nostra Regione, dunque, data la situazione orografica dei luoghi in cui doveva avvenire la Sagra, era compito delle Autorità locali prendere i provvedimenti del caso… e questi non potevano che essere l’annullamento o il rinvio della manifestazione.
Si dirà che è troppo facile parlare col senno di poi, ma non è così, perché il luogo sembrava scelto apposta per provocare guai.
Innanzitutto, in caso di forte nubifragio, l’angustia della valle nella zona del Molinetto della Croda e il lieve dislivello fra il piazzale della festa ed il greto del torrente lasciavano facilmente intuire la possibilità di una esondazione, tuttavia, se il montare delle acque fosse avvenuto con la naturale gradualità, la gente avrebbe potuto mettersi agevolmente in salvo e non ci sarebbero state vittime.
La tragedia, invece, è avvenuta a causa di uno sbarramento di detriti trascinati a ridosso di un ponte situato poco a monte del luogo della festa, sbarramento che, dopo aver prodotto un piccolo lago artificiale, ha ceduto all’improvviso precipitando a valle i detriti e l’ingente massa d’acqua al seguito

Ponte San Paolo  (Vicenza)

Si noti, sullo sfondo, l’alta arcata del ponte di S.Michele, a Vicenza: costruito ai tempi della Serenissima, esso non ostacola assolutamente il deflusso delle piene, a differenza di ponte di S. Paolo, in primo piano, costruito solo un secolo fa.

Dunque, la causa prima della tragedia è il ponte che ha impedito il libero deflusso dei detriti trasportati dalla piena.
Sciagure di questo tipo non sono rare in Italia, e questo perché, a differenza di quanto accadeva nell’antichità, in cui i ponti erano costruiti con ampie arcate che non riducevano la sezione dell’alveo dei fiumi ma la superavano in ampiezza per garantire sempre il deflusso delle acque di piena e degli immancabili detriti, noi oggi costruiamo robusti ponti in cemento armato, le cui campate sono piazzate ad un livello più basso del ciglio degli argini per consentire alle strade di mantenersi piane, a livello campagna, evitando così la bruttura delle rampe alle due estremità del ponte.
In tal modo, però, noi riduciamo lo spazio attraverso il quale devono passare le acque di piena (che magari a monte erano agevolmente contenute dagli argini) e facilitiamo l’ingorgo dei detriti galleggianti che tale spazio riducono ulteriormente (quando non lo ostruiscono come nel caso in oggetto).

Infine, prendo lo spunto dalla foto dei ponti di Vicenza per parlare del vecchio ponte detto di Pusterla, il quale presenta due grandi arcate che sostengono un piano stradale caratterizzato da due rampe piuttosto pronunciate, tanto che per secoli le piene sono passate sotto di esso senza procurare danni…
Questo fino a qualche anno fa, quando la spinta prodotta da una piena straordinaria sembra che abbia recato qualche dissesto nella struttura del manufatto minacciandone la stabilità.
Ebbene, certo su consiglio di tecnici qualificati, l’Amministrazione comunale è corsa subito ai ripari facendo eseguire una poderosa opera di rafforzamento della sede stradale tesa ad irrigidire l’intera struttura al fine di rafforzarne la resistenza alla spinta delle piene, e questo senza chiedersi il perché del pericoloso evento!
Se qualcuno si fosse rivolto quella domanda, forse avrebbe ottenuto questa risposta: «Le piene straordinarie non hanno un perché: càpitano e basta! »
Risposta errata!… Le piene straordinarie càpitano quando càpitano ma fanno danni solo quando l’alveo del fiume non è in grado di contenerle… E questo è proprio il caso del ponte di Pusterla.

Ponte Pusterla (Vicenza)

All’ex mulino che si vede sullo sfondo corrisponde, sulla riva opposta, la presa d’acqua e la ruota di un altro ex mulino, entrambi funzionanti un tempo grazie alla grande briglia visibile nella foto, esattamente come avviene poco a monte del ponte. La briglia in foto rialza il piano di scorrimento delle acque di almeno 2 m.

Premesso che le piene eccezionali sono dovute a precipitazioni eccezionali (e queste aumentano di intensità col riscaldamento del clima), ricordiamo che quando l’alveo del Bacchiglione fu alterato dalla costruzione, forse un secolo fa, di due ampie briglie (una a monte ed una a valle del ponte per convogliare l’acqua verso le ruote dei mulini attivi un tempo sulle due sponde ma inattivi già da molti anni) evidentemente il clima non era ancora giunto ai livelli estremi attuali, tuttavia, le piene, che si sono susseguite a ritmo crescente negli ultimi anni, avrebbero dovuto allertare le autorità e indurle a chiedersi se non fosse il caso di eliminare almeno la parte centrale della briglia a valle ormai in disuso da molti decenni, per consentire di abbassare forse di due metri l’alveo sotto le arcate del ponte riportandolo ai livelli originari, cosa che, visto l’andamento del clima, sarebbe consigliabile fare anche se l’emergenza sembra ormai passata.

 


Valdagno 7 agosto 2014

Nei giorni successivi alla tragedia di Refrontolo, gli Amministratori locali hanno mostrato, documenti alla mano, che l’intera valle a monte del Molinetto della Croda era stata dichiarata dai Geologi esente da rischio idrogeologico.

Se per “rischio idrogeologico” si intende “pericolo di frane e smottamenti dovuti a cedimenti strutturali della montagna”, a giudicare dalla tipologia e dalla giacitura degli strati rocciosi della zona quella dichiarazione dei tecnici appare corretta.

Tuttavia, la ristrettezza della gola in cui è avvenuta la tragedia lascia intendere che, grazie ai detriti alluvionali, in caso di piena il torrente assume una capacità di erosione notevole; capacità certo dovuta alla presenza, a monte del sito, di un “bacino imbrifero” di tali dimensioni da consentirgli, in caso di nubifragio, di raccogliere una quantità d’acqua e detriti potenzialmente molto pericolosa.

Ma i Geologi non sono Climatologi, così, evidentemente, di questo fatto essi non erano tenuti ad avere cognizione e non ne hanno tenuto conto, così come non ne hanno tenuto conto i Tecnici che hanno progettato il modesto viadotto a monte del Molinetto della Croda: quel ponte basso sull’acqua, che ha bloccato ramaglie, balle di fieno ed altri detriti, i quali hanno provocato la formazione di un lago, le cui acque di piena dapprima sono tracimate provocando l’innalzamento del torrente fino a superare di mezzo metro il piazzale della festa, allagando anche il capannone ma non allarmando le persone che anzi si sono perse a riprendere la scena (e fra queste anche i quattro che poi sono morti); poi, col cedimento improvviso dello sbarramento, la massa d’acqua e di detriti del laghetto a monte del ponte è precipitata travolgendo tutto: capannone con tutti gli arredi, automobili  e persone.

D’altra parte, benché il buon senso non dovrebbe mancare a degli Amministratori pratici della “fisiologia” del loro territorio, essi non sono tenuti a giudicare i pareri dei Tecnici: a scanso di responsabilità spiacevoli, infatti, ad essi basta adattare le loro scelte a detti pareri e poi metterli al sicuro in archivio, a futura memoria in caso di guai, proprio com’è avvenuto a Refrontolo!

Per evitare la tragedia, sarebbe forse bastato che qualcuno, pratico dei luoghi e dei problemi che possono derivare dai capricci del clima, avesse compreso che si stava innescando una trappola  mortale e avesse dato l’allarme: ho detto però forse, e questo perché spesso la folla in festa non bada agli allarmi se non quando è troppo tardi, spece se detti allarmi richiedono spiegazioni che non interessano ai gaudenti e se, come avviene di solito, sono lanciati da persone non autorevoli.

Da ciò, a mio parere, si comprende chiaramente quanto potrebbe essere utile la formazione, nell’ambito della Protezione Civile, di persone pratiche del territorio e preparate ad affrontare i vari problemi che potrebbero interessarlo: dunque, non individui specializzati (come i geologi, ad esempio), ché quelli non mancano certo nella nostra Regione, ma persone dotate di vaste conoscenze (non specialistiche) e di buon senso, capaci di lavorare in squadra e di collegare tra di loro fatti inerenti a diverse discipline scientifiche, al fine di farne una sintesi tesa a fornire una panoramica d’insieme delle situazioni di rischio, panoramica che la Protezione Civile Alpina, col prestigio derivante dalle benemerenze acquisite in anni di attività, potrebbe sottoporre all’attenzione delle Autorità con qualche non remota speranza di ottenere udienza.

Effetto serra? … Bah!

TerraLe cause reali delle mutazioni climatiche prospettive di controllo del clima

Negli ultimi anni “80, non trovando convincenti le argomentazioni dei sostenitori della teoria denominata “EFFETTO SERRA”, come mia consuetudine  affrontai lo studio dell’intera materia con approccio rigorosamente multidisciplinare.  Tale studio mi portò a conclusioni del tutto diverse da quelle proposte dagli studiosi, con i quali mi trovavo d’accordo solo per le preoccupazioni riguardo alla salute dell’ambiente, salute che mi è sempre stata a cuore fin da ragazzo.

Agli inizi del 1990 ebbi la fortuna di vedermi pubblicato sul Giornale di Vicenza un primo articolo (il 18 gennaio, data storica per me) al quale, sull’onda dell’interesse suscitato dalle mie argomentazioni, seguirono presto numerosi altri articoli, dei quali presento qui una sintesi spero chiara ed esauriente.

Scarica Articoli:

1. Cicloni e anticloni, gli scherzi della pressione atmosferica   (PDF 380 KByte)

2. Alle origini dei fenomeni climatici (PDF 380 KByte)

3. La scienza nel cassetto (PDF 380 KByte)

4. Risolto l’enigma delle correnti oceaniche (PDF 520 KByte)

5. Le correnti oceaniche secondarie (PDF 470 KByte)

6. Comprensori Climatici (PDF 220 KByte)

7. I fattori di disturbo del clima (PDF 225 KByte)

8. La genesi di deserti e uragani (PDF 400 KByte)

9. I disastri del Clima  (PDF 660 KByte)

10. Il controllo del clima: un’utopia? Forse no.  (PDF 460 KByte)

11. Effetto Serra farà rima con guerra?  (PDF 300 KByte)

12. Il clima e l’uomo: ciò che i libri di Storia non dicono  (PDF 480 KByte)

 

Uragani, tifoni e affini: quando l’atmosfera dà i numeri

UraganoIl fenomeno che genera le grandi perturbazioni atmosferiche è costituito dal differenziale termico fra una determinata zona calda della superfice del pianeta e tutta la vasta area fresca circostante.
Poiché, infatti, la temperatura della superfice del pianeta influisce in modo determinante sulla temperatura dell’aria soprastante, questa si riscalda o si raffredda a seconda della temperatura del suolo.
In tal modo, l’aria a contatto con una superfice calda si riscalda a sua volta e ciò ne provoca la dilatazione rendendola più leggera(1) di quella fresca che la circonda.
A sua volta, quest’ultima, gravata dal proprio peso, si insinua facilmente sotto l’aria calda sollevandola dal suolo e dando così inizio al movimento ascensionale che è all’origine delle perturbazioni atmosferiche.
Perché l’innalzamento iniziale possa trasformarsi in un mulinello e poi in una tromba d’aria, che potenziandosi può trasformarsi in un tornado e infine in un uragano vero e proprio, occorre che l’aria interessata alle fasi iniziali del fenomeno contenga una certa scorta di energia termica…  scorta costituita dal calore contenuto nell’umidità dell’aria(2).
Ora, è bene ricordare che il contenuto di umidità nell’aria è direttamente proporzionale alla pressione ed alla temperatura dell’aria stessa.
Quando, infatti, l’aria si riscalda, aumenta la sua capacità di assorbire umidità dando così l’impressione che l’atmosfera sia limpida anche quando non è asciutta, mentre quando si raffredda, tale capacità diminuisce determinando la condensa del vapore, il quale fa apparire l’atmosfera di un biancore opaco.
A contatto col suolo freddo, poi, la condensa dà origine alla nebbia, mentre, in quota, essa origina le nuvole da cui poi si genera la pioggia.
Analoga sequenza si verifica con le variazioni di pressione dell’aria: se la pressione aumenta, infatti, aumenta anche la capacità dell’aria di assorbire umidità; al contrario, con la diminuzione della pressione, comincia la fase di condensa dell’umidità fino a giungere alla formazione della pioggia.
Benché generate entrambe dall’influenza della superfice del pianeta e benché in apparenza simili, fra le due sequenze esiste una differenza sostanziale: quando il contatto col suolo raffredda la bassa atmosfera, l’aria sottrae calore all’umidità, che così, priva di energia, è indotta a condensare rimanendo inerte, come nel caso della nebbia; al contrario, benché anche la diminuzione della pressione provochi la condensa dell’umidità, anziché diminuire, la temperatura dell’aria tende ad aumentare, e questo perché essa riceve il calore rilasciato dal vapore acqueo in addensamento: in tal modo, aumentando la sua temperatura, l’aria si dilata ulteriormente divenendo via via più leggera e ciò, oltre a favorire il suo innalzamento di quota, produce ulteriore rilascio di calore da parte dell’umidità residua a sua volta in fase di condensa…
Questo processo continua fino a che non si esaurisce l’energia termica fornita dalla condensa del vapore, energia tuttavia, che alla corrente ascensionale può essere fornita in quantità quasi illimitate da particolari condizioni presenti al suolo.
Quando, infatti, il moto ascensionale dell’aria è innescato dall’alta temperatura di una massa d’acqua molto profonda, il rimescolamento superficiale di questa, prodotto dalla perturbazione atmosferica, non porta a galla acqua fredda che potrebbe bloccare sul nascere la formazione del vortice(3) atmosferico, ma porta a galla altra acqua calda, che fornisce ulteriore energia termica all’intero processo(4).
« Bene – dirà qualcuno – ma come si spiega, allora, il fatto che gli uragani si abbattono ogni anno sui Caraibi e sui Paesi circostanti e non lungo la rotta della calda Corrente Brasiliana, benché questa, derivando dal ramo sud delle Corrente Equatoriale Atlantica, sia la gemella di quella che si insinua nel Golfo del Messico? »
La domanda è importante e merita una risposta precisa ed esauriente.
Come abbiamo visto all’inizio, il fattore che provoca le perturbazioni atmosferiche è il differenziale termico fra una determinata zona calda della superfice del pianeta e tutta la vasta area fresca circostante.
Ciò, ad esempio, è quanto avviene nel Nord Atlantico lungo il percorso della calda Corrente del Golfo, dove però ben difficilmente le perturbazioni si trasformano in uragani, e questo perché, pur se elevato, il differenziale termico fra superfice calda della corrente e quella fresca dell’oceano circostante non raggiunge mai il livello critico.
Tale livello non viene raggiunto nemmeno lungo le coste del Brasile, e questo perché in quell’area la superfice dell’oceano è fortemente riscaldata dal Sole tropicale.
Al largo del Mare dei Caraibi, invece, tale livello critico è superato per il sopraggiungere da Nord-Est delle fresche acque portate in zona della Corrente delle Canarie, acque, la cui temperatura contrasta in modo netto con quella del ramo Nord della Corrente Equatoriale Atlantica che si inoltra nei Caraibi.


  1. Il minore peso dell’aria calda è dovuta al fatto che, essendo essa meno densa rispetto all’aria fredda, a parità di volume essa contiene un numero nettamente inferiore di molecole, e dunque essa pesa meno.
  2. Come è noto, l’umidità dell’aria è costituita da vapore acqueo e questo è generato dal calore del Sole che, riscaldando l’acqua, la fa evaporare.
  3. Riguardo all’invorticamento delle masse d’aria spinte verso l’alto, la spiegazione del fenomeno richiederebbe uno spazio esorbitante per questa breve esposizione, cosicché, non essendo tale argomento essenziale per l’esposizione in corso, se ne rimanda la trattazione ad altro articolo.
  4. Ed è tale circostanza che spiega il verificarsi degli uragani solo lungo il corso terminale di alcune correnti oceaniche calde.

Allarme Ozono: una esagerazione?

Rilevamento NASA buco nell’ozono
sopra l’Antartide

Questo studio è stato realizzato col materiale tratto da due miei articoli redatti in risposta al clima di allarme suscitato dalle dichiarazioni degli esperti riguardo all’inaspettato riap-parire del fenomeno noto come Buco nell’Ozono.
Nel primo articolo, redatto a fine settembre 1998, confutavo le discutibili dichiarazioni di un luminare della Scienza (apparse in quello stesso mese sul Corriere della Sera) e illustravo la natura dei fenomeni e le cause reali che li producevano; nel secondo, redatto nell’estate del 2000, dimostravo la fondatezza della mia tesi sulla base di una documentazione che, benché di assai difficile reperibilità in quegli anni per un non addetto ai lavori, era ben nota al Mondo Scientifico, documentazione tuttavia assolutamente non considerata dagli Specialisti dell’at-mosfera in quanto ritenuta attinente ad una disciplina scientifica estranea ai problemi riguardanti l’Ozonosfera.
Purtroppo, com’è ormai consuetudine nel mondo dell’informazione, mentre gli Accademici godono di ampi spazi sui media anche quando emettono degli sproloqui, i due articoli in oggetto non furono mai pubblicati, e questo perché, pur destando notevole interesse presso le redazioni dei giornali, il loro Autore non aveva i titoli accademici per esprimere il proprio dissenso dalle ipotesi ufficiali della Scienza!

[Scarica l’opuscolo ]  (pdf  2,0 Mbyte)