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Clima 4: risolto l’enigma delle correnti oceaniche

Quanti, fra i nostri Lettori, hanno visto qualche volta delle competizioni di atletica leggera, hanno certamente notato che nelle gare di velocità gli atleti partono da postazioni situate in posizione scalare; le più interne alle curve risultano gradualmente arretrate rispetto a quelle disposte verso i margini dell’area sportiva, e ciò perché, se i blocchi di partenza fossero tutti appaiati su una medesima linea, gli atleti delle corsie esterne si troverebbero svantaggiati nelle curve a causa della maggiore lunghezza delle loro corsie di marcia.

Ebbene, nella risalita dal fondo degli oceani alla superfice, alle acque delle correnti ascensionali capita un po’ la medesima cosa; girando attorno all’asse terrestre ad una profondità di tot chilometri, nelle ventiquattr’ore esse si trovano a compiere una circonferenza minore rispetto a quelle che dovranno percorrere nello stesso intervallo di tempo nel corso della risalita, poiché questa le allontana dall’asse terrestre allungando il raggio e di conseguenza l’estensione delle circonferenze da percorrere alle diverse quote.

Schema esemplificativo dell’attardamento delle acque in risalita dal fondale oceanico

Schema esemplificativo dell’attardamento delle acque in risalita dal fondale oceanico

Diagramma esemplificativo dell’attardamento, alle diverse profondità, delle acque in risalita dal fondale oceanico: trovandosi a percorrere circonferenze sempre maggiori durante la risalita, a causa della minore velocità iniziale di rotazione attorno all’asse terrestre esse si attardano progressivamente, giungendo in prossimità della superfice in una posizione notevolmente scostata ad occidente rispetto a quella perpendicolare al punto di partenza.

Dunque, risalendo verso la superfice, le acque di provenienza profonda e cariche di sostanze minerali si troverebbero a percorrere circonferenze di lunghezza via via crescente, cosicché, mantenendo per inerzia la velocità di rotazione iniziale, esse si attarderebbero sensibilmente rispetto all’ambiente circostante.

In realtà, però, l’attardamento sarebbe minore di quelle che potrebbe risultare dai calcoli, poiché, pur se dotate di una superiore inerzia dovuta al carico di minerali in esse disciolti, le acque in risalita subirebbero inevitabilmente un certo trascinamento da parte delle acque stazionanti alle diverse quote.  Il ritardo, tuttavia, sarebbe ugualmente sensibile, cosicché una persona, che si trovasse su un’imbarcazione immobile sulle acque in attardamento rispetto alla normale velocità di rotazione della superfice oceanica a quella latitudine, vedendo delle terre lontane che la sopravanzano verso Est, avrebbe la netta impressione di navigare su una corrente diretta ad Ovest[1].

Le correnti oceaniche sono generate da profonde correnti calde che risalendo la superfice si attardano sulla rotazione terrestre

Le correnti oceaniche sono generate da profonde correnti calde che risalendo la superfice si attardano sulla rotazione terrestre

C’è sempre una grande fonte di calore attiva sul fondo dell’oceano all’origine delle cosiddette “correnti oceaniche”, le quali in realtà non sono delle “correnti”, cioè non sono delle masse d’acqua in movimento verso Ovest, ma ruotano anch’esse verso Est attorno all’asse terrestre, attardandosi però a causa della loro velocità iniziale, che è inferiore rispetto a quella delle acque superficiali.

«E va bene… – si dirà ancora – ma, se l’acqua risalita dal fondale oceanico non riesce a raggiungere la superfice perché la sua temperatura residua è insufficiente a darle la spinta finale, come si spiega che, nella zona di risalita, la temperatura superficiale dell’oceano è notevolmente più bassa rispetto a quella che dovrebbe avere a quella latitudine e che si riscontra invece all’estremità occidentale della stessa fascia oceanica? »

Anche in questo caso la risposta è semplice: attardandosi ad Ovest, le acque “fresche” risalite dal fondo strisciano sotto lo strato delle calde acque superficiali mescolandosi ad esse per attrito, cosicché ne risulta un miscuglio che presenta una temperatura nettamente inferiore a quella che sarebbe propria a quella latitudine, ma nettamente superiore a quella residua delle acque risalite dal fondo dell’oceano.

Ovviamente, fino a che continua il flusso dalle profondità oceaniche, allo stesso modo continua anche l’attardamento verso Ovest della “cosiddetta corrente”, la quale continuerà a diffondere nell’oceano le sue acque rese fertili dalla carica di elementi minerali sottratti agli apparati vulcanici sottomarini.

Acque fertili, dunque, che favoriscono un’esplosiva proliferazione del fitoplancton, il quale, oltre a produrre la massima parte dell’ossigeno atmosferico, costituisce la base della catena alimentare dell’oceano, dallo zooplancton al krill ed alle balene che di questo si nutrono, dagli invertebrati più primitivi ai pesci di tutte le dimensioni, dai pinguini e dalle foche agli squali  ed alle orche voraci.

Quando però si attenua o addirittura si spegne una delle centrali termiche del sistema di termoregolazione[2] del nostro pianeta, avviene la catastrofe: quella, che era conosciuta come una corrente portatrice di vita per la fertilità delle sue fresche acque, si arresta[3] e in breve la superfice oceanica si riscalda sotto i raggi del Sole adeguandosi alla temperatura normale per quella latitudine, perdendo però la sua rigogliosa vitalità.

Questo, ad esempio, è ciò che avviene quando si verifica l’evento detto “el Niño”, evento che si crede sia una “corrente calda” che porta la morte della pesca ma che, in realtà, costituisce il ripristino delle condizioni ambientali che sarebbero “normali” a quella latitudine, condizioni che invece sono abitualmente alterate dalla frescura portata dalla cosidetta “Niña”, l’area resa fertile e ricca di vita dall’attardamento verso Ovest delle acque risalite dagli abissi oceanici grazie all’attività idrotermale presente al largo della costa peruviana.

Il fenomeno del Niño, evidenziato in rosso.

Il fenomeno del Niño, evidenziato in rosso.

In questa mappa del Servizio meteo degli Usa, è ben evidenziata in rosso l’area colpita dal fenomeno detto El Niño, fenomeno che in realtà non è una “corrente calda” come si crede, ma che consiste nel ripristino della normale temperatura della superfice oceanica in seguito alla scomparsa della Niña, la fresca e fertile “corrente” emersa dal fondale oceanico al largo delle coste peruviane, la quale, per la pescosità delle sue acque, garantisce benessere a tutte le popolazioni della zona.

Come abbiamo visto, dunque, tanto nell’area del Sudpacifico quanto in tutti gli altri oceani e mari della terra, ciascuna fase di sviluppo di queste benefiche “pseudo correnti” dipende dall’attività idrotermale che avviene sul fondo degli abissi[4].

Tale attività tuttavia, al pari di quanto avviene nelle aree vulcaniche sulle terre emerse, può avere una durata estremamente varia, che potrebbe essere di solo qualche giorno (come avviene nel caso dell’Etna) o di qualche mese, ma può anche durare addirittura millenni (come nel caso delle eruzioni del Trappo Siberiano e dell’altopiano del Deccan), ed è per questo motivo che sarebbe importante monitorare gli apparati idrotermali che generano le correnti: il rilevamento di ogni loro cambiamento di regime potrebbe consentire di stimare con maggiore anticipo la portata idrica della corrente che da essi prende origine, e ciò consentirebbe di allungare considerevolmente i tempi delle previsioni di massima a favore dell’Agricoltura

«Bene!… – dirà qualcuno – Ma qui si parla solo di correnti oceaniche generate dall’attardamento verso Ovest delle acque in risalita dai fondali… Come si spiegano, allora, le correnti che si muovono in tutt’altra direzione, come la Corrente del Golfo, ad esempio, che attraversa l’Atlantico in direzione SO-NE, e la Corrente Circumantartica, che si muove addirittura verso Est sopravanzando la rotazione terrestre?»

Dare una risposta a questa domanda non è difficile, ma richiede un certo spazio: invitiamo pertanto il Lettore a seguirci nell’articolo che segue, dal titolo:  Le correnti oceaniche “secondarie”.


Note

[1] Per comprendere meglio la falsa impressione, che nell’esempio avrebbe il navigante immobile sull’oceano, ricordiamo la sensazione che suscita in noi l’osservazione dell’acqua di un fiume che passa vorticosa sotto il ponte su cui troviamo: la corsa della corrente, infatti, ci dà l’impressione di essere noi in movimento e non l’acqua.

[2] Le attività effusiva ed idrotermale sottomarine non formano un impianto di termoregolazione unico ma, costituendo la via attraverso la quale si scarica all’esterno l’energia termica prodotta in eccesso nelle viscere del pianeta, ciascun apparato funziona in maniera pressoché indipendente dagli altri, cosicché esso può aumentare o diminuire la propria attività senza influire in modo apprezzabile sul funzionamento degli altri. Come vedremo, però, esistono alcuni di tali apparati, situati in zone geografiche particolari, il cui funzionamento più o meno attivo influisce più degli altri sull’andamento complessivo del clima terrestre.

[3] Per non dovere ripetere continuamente l’ingombrante definizione di “cosidetta corrente” o di “acqua risalita dal fondale oceanico” od ancora “acque in attardamento rispetto alla normale velocità di rotazione della superfice del pianete a quella latitudine”,  per comodità da qui in avanti accettiamo di usare il più sbrigativo termine convenzionale di “corrente” anche se non è corretto, così come è puramente convenzionale la voce “si arresta”, perché in realtà, cessato il flusso di acque in attardamento, l’oceano si ricompone in una piatta uniformità termica.

[4] Ho detto “attività che avviene sul fondo degli abissi” a ragion veduta: quando, infatti, l’attività idrotermale sottomarina avviene in prossimità della superfice, data l’insignificante differenza di velocità di rotazione attorno all’asse terrestre fra le due quote, non avviene quasi attardamento, tanto più che, data la sua lieve entità, questo viene facilmente annullato dal trascinamento operato dall’inerzia delle acque circostanti, cosicché praticamente non si forma alcuna corrente.

Clima 3: la scienza nel cassetto

(sintesi di un articolo pubblicato sul Giornale di Vicenza nel 1990)

In certe fasce degli oceani, lungo le linee dei paralleli, si notano dei fenomeni particolari, che finora la Scienza ha potuto solo registrare senza riuscire a darne una spiegazione  soddisfacente o a ricavarne qualcosa di utile.

Ad esempio, nel Pacifico meridionale si nota una notevole diversità fra la temperatura superficiale nella zona occidentale, calda, e quella orientale molto più fresca[1].

Il fenomeno si potrebbe spiegare col movimento di correnti superficiali provenienti dalle latitudini più fredde se ciò non fosse contraddetto dal fatto che, nella zona fresca, l’acqua è ricchissima di sostanze minerali provenienti sicuramente dal fondo dell’oceano.

Mappa delle anomalie termiche superficiali degli oceani (da F. Vercelli: Il mare, i laghi, i ghiacciai)

Mappa delle anomalie termiche superficiali degli oceani (da F. Vercelli: Il mare, i laghi, i ghiacciai)

 

Si presenta quindi un primo paradosso: un enorme flusso di acqua “fresca” (quindi densa e pesante) e carica di sostanze minerali (che la rendono ancora più pesante) sale alla superfice sovvertendo le più elementari leggi della Fisica, e sposta l’acqua calda e leggera che vi staziona da lunghi mesi sotto il cocente Sole dei tropici!

Anche in Atlantico avviene qual-cosa di simile: in questo caso, però, disponiamo di una documentazione maggiore e di più antica data rispetto al Pacifico.

Nella fascia sub-tropicale del nostro oceano, intorno ai 15 gradi di latitudine, si nota che ad Occidente, presso la costa brasiliana, la temperatura superficiale dell’acqua è di circa 25 gradi (fatto normale per quelle latitudini) mentre, in certe aree al largo della costa africana, la temperatura superficiale dell’acqua raggiunge a mala pena i 16 gradi!

Le stranezze, però, non finiscono qui: alla stessa latitudine, infatti, scendendo in profondità le cose si invertono… Così, al largo della costa brasiliana, a mille metri di profondità, l’acqua presenta una temperatura di 2 gradi (fatto normale per quella quota a tutte le latitudini) mentre, al largo della costa africana, alla stessa profondità di mille metri la temperatura dell’acqua è di ben 8 gradi![2]

La sconcertante situazione, che non costituisce un caso unico negli oceani, non ha ricevuto finora alcuna spiegazione da parte della Scienza, la quale si è limitata a prenderne nota e a metterla nel cassetto, forse in attesa di tempi migliori.

Unica spiegazione a questi sconcertanti fenomeni è, a mio avviso, la presenza, sul fondo degli oceani, di enormi sorgenti di calore capaci di azionare immani correnti ascensionali, le quali sconvolgono il normale assetto termico delle acque profonde così come di quelle superficiali, dando origine alle Correnti Oceaniche.

A prima vista, tale spiegazione potrebbe sembrare fantasiosa, e tuttavia, a differenza delle altre teorie scientifiche che si rivelano indimostrabili,  essa è sostenuta da fatti ben precisi, arcinoti alla Scienza e documentati al dilà di ogni possibile dubbio, e questo benché fin’ora nessuno li abbia mai collegati con le anomalie termiche testé descritte e con altri fenomeni che vedremo in seguito[3].

Come sanno bene i Geologi, sul fondo degli oceani esistono vastissime aree interessate da una intensa attività magmatica, che si manifesta con emissioni laviche e sopratutto con estesa attività idrotermale: tali aree, caratterizzate da imponenti rilievi sottomarini di origine vulcanica spaccati da enormi fenditure longitudinali, prendono il nome di “Dorsali Oceaniche” le cui spaccature, larghe anche alcuni chilometri, costituiscono una immensa[4] ragnatela di cicatrici aperte nella crosta terrestre, i cui bordi si allontanano fra di loro di due o tre ma anche di sei o sette centimetri all’anno![5]

All’interno di tali immani crepacci, pur se ricoperto di detriti ribolle il magma incandescente, il quale cede direttamente alle acque soprastanti enormi quantità di vapori saturi di minerali e una incalcolabile quantità di energia termica.[6]

A tale cessione diretta di calore e di vapori, si aggiungono le enormi quantità di vapori incandescenti[7] carichi di minerali ceduti dai sistemi idrotermali attivi sui fianchi delle dorsali, e l’altrettanto imponente cessione di vapori incandescenti e di minerali da parte degli apparati idrotermali attivi in determinate aree sottomarine caratterizzate dalla presenza di grandi raggruppamenti di vulcani[8].

Iniettati a forza nelle acque abissali, quei vapori incandescenti cedono rapidamente calore alle acque profonde, le quali, riscaldate in tal modo ed arricchite di minerali, schizzano a loro volta verso l’alto mescolandosi gradualmente per via con masse crescenti di altre acque, le quali vengono così coinvolte nella risalita fino a formare delle enormi correnti ascensionali che, per la carica di minerali che trascinano con sé, ritengo appropriato definire Risorgive fertili[9].

Rilevamento radar del fondale oceanico del Pacifico meridionale: si noti la fitta frammentazione della crosta oceanica costituita dalle faglie trasformi (parallele fra di loro e trasversali rispetto alla dorsale oceanica costituita da un immenso “vulcano lineare”.

Rilevamento radar del fondale oceanico del Pacifico meridionale: si noti la fitta frammentazione della crosta oceanica costituita dalle faglie trasformi (parallele fra di loro e trasversali rispetto alla dorsale oceanica costituita da un immenso “vulcano lineare”).

Pennacchio di acqua caldissima, carica di minerali, sgorga da una “bocca sorgente calda” (detta anche “fumatore nero”) fotografato sul Rialzo del Pacifico Orientale. (Da D.B. Foster, Woods Hole Oceanographic Institution).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La  cessione di energia termica a masse crescenti d’acqua, però, provoca l’abbassamento della temperatura nella corrente ascensionale (abbiamo visto che gli iniziali 400 gradi diventano solo 8 a mille metri di profondità) [10] tanto che, a contatto con lo strato superficiale dell’oceano riscaldato dal Sole con una media di 25 gradi, la spinta di galleggiamento della parte sommitale della corrente ascensionale viene a cessare.

Continuando però negli abissi l’attività idrotermale che alimenta detta corrente, la risalita di altra acqua è incessante ed inarrestabile cosicché, non potendo emergere in superfice per l’insufficente temperatura residua, essa è costretta a dilagare sotto la calda coltre superficiale.

«E va bene!… – si dirà – ma, pur espandendosi orizzontalmente, come può la corrente ascensionale trasformarsi in una delle grandi correnti che solcano gli oceani

La risposta è semplice, basta prestare un po’ di attenzione all’articolo seguente: Risolto l’enigma delle correnti oceaniche.


Note

[1] Per certe fasce, la differenza può essere anche di nove gradi!

[2]  Da Il Mare, i Laghi, i Ghiacciai, di Francesco Vercelli.

[3] Sembra incredibile la chiusura che esiste fra le diverse branche della Scienza: in questo caso, ad esempio, ho sperimentato a mie spese quanto poco interessino ai Geologi i problemi inerenti al clima e, di contro, l’assoluta indifferenza dei Climatologi nei confronti della Geologia.

[4] Mi è stato rimproverato il troppo frequente uso di aggettivi quali immenso, enorme, immane, i quali esprimono sì l’idea di qualcosa di veramente grande ma non esprimono la reale entità dei valori: ebbene, poiché finora l’entità di tali valori è stata espressa dalla Scienza solo con cifre ipotetiche frutto di calcoli rispettabilissimi ma non ancora scientificamente accertati, ritengo lecito (e più sbrigativo) rivolgermi al Lettore con gli aggettivi in oggetto.

[5]  Da  I vulcani Sottomarini  di Roger Hekinian in Le Scienze n 39.

[6]  Da Le sorgenti calde sul fondo degli oceani, di John Edmon e Karen Von Damm, in Le Scienze, Quaderni n. 39.   È stato calcolato che la quantità di calore disperso negli abissi dall’attività magmatica di tutte le Dorsali Oceaniche sia di un numero annuo di calorie pari circa a 5 x 10 elevato alla diciannovesima potenza, numero enorme, che risultà però pari a solo un decimo del flusso totale di calore proveniente dall’interno della Terra. Tuttavia, se si confronta la superfice totale  del pianeta con l’effettiva superfice occupata dalle crepe delle Dorsali in cui si verifica attività magmatica, il rapporto si inverte in modo clamoroso: infatti, risulta che le Dorsali Oceaniche emettano una quantità di calore, per unità di superfice, superiore di centinaia di volte a quello rilasciato, sempre per unità di superfice, dal resto della crosta terrestre.

[7] Quei vapori sprizzano sul fondo del mare con temperature altissime, spesso superiori ai 400 gradi.

[8] Sul fondo del mar Tirreno, ad esempio, esiste un raggruppamento di oltre cento vulcani attivi.

[9] “Risorgive” perché la loro salita verso la superfice ricorda il percorso compiuto dalle acque che alimentano i “fiumi di risorgiva” e “fertili” per l’esplosione di vita garantita dalla carica minerale che le caratterizza.

[10] Come avviene per tutti i beni, la loro condivisione con masse crescenti di fruitori determina la diminuzione della quota spettante a ciascuno.

Clima 2: alle origini dei fenomeni climatici

(sintesi di alcuni articoli pubblicati sul Giornale di  Vicenza nel 1990)

Grafico della condotta dell’energia solare  (da Il Tempo: come da nota 7)

Grafico della condotta dell’energia solare (da Il Tempo: come da nota 7)

Nell’articolo precedente (CLIMA 1: Cicloni e anticicloni, gli scherzi della pressione atmosferica) abbiamo visto quanto siano determinanti le temperature al suolo sui fenomeni meteorologici e sul clima in generale: allora, forse è in caso di conoscere meglio le cause che influiscono sulle temperature al suolo e, di conseguenza, conoscere meglio i meccanismi attraverso i quali dette temperature condizionano il clima.

Ebbene, innanzitutto occorre ricordare che…  Solo il 15%…  Questa è la quota di energia solare assorbita dall’atmosfera rispetto a tutta quella che il Sole invia sulla Terra!

Il rimanente dell’energia solare viene assorbito dalla superfice del pianeta (il 43%) o viene riflesso e rispedito nello spazio (il 42%)[1]

Di fronte a tali cifre, se si considera l’immensità del volume della atmosfera rispetto all’esiguità dello spessore della superfice terrestre interessata dall’’azione del Sole (solo una quarantina di cm sulla terraferma e solo qualche decina di metri nell’acqua) si deve convenire che l’energia solare trattenuta dall’aria è ben poca cosa![2]  Ed è appunto questo fatto, che rende gli strati inferiori dell’atmosfera così sensibili, direi anzi vulnerabili, rispetto all’influenza termica della superfice del pianeta.

L’energia solare che riscalda la superfice dei mari non riesce a scaldare in profondità, cosicché non possono formarsi movimenti verticali.

L’energia solare che riscalda la superfice dei mari non riesce a scaldare in profondità, cosicché non possono formarsi movimenti verticali.

Poiché l’aria è un fluido al pari dell’acqua, cosicché entrambi gli elementi soggiacciono alle medesime leggi, per meglio capire il discorso si immagini di riscaldare una pentola d’acqua a mezzo di una potente resistenza elettrica posta presso la superfice: il calore della resistenza interesserà maggiormente le acque superficiali e meno quelle profonde, per cui si avrà acqua più calda e quindi espansa e leggera in alto, e più fredda, densa e pesante in basso, in una situazione di perfetto stallo.

L’azione del calore alla base del movimento dei fluidi.

Se, al contrario, ponessimo la pentola d’acqua sopra una sorgente di calore, pur se questa fosse debole come la fiamma di una candela (vedi figura a sinistra), l’energia termica prodotta da questa avvierebbe nell’acqua una corrente ascendente calda che, giunta in superfice, dilagherebbe lateralmente con moto orizzontale sovrapponendosi all’acqua fredda e pesante, la quale verrebbe così risucchiata verso il fondo dando l’avvio ad un rimescolamento in senso verticale[3].

Ebbene, poiché, come abbiamo visto, anche l’aria della nostra atmosfera è soggetta alle leggi che regolano il movimento dei fluidi, a contatto con una superfice del suolo fredda che le sottrae calore essa diventa più densa e pesante, tendendo così a dilagare lateralmente a spese di aria mantenuta meno densa (e perciò più leggera) dal contatto con una superfice calda, la quale le fornisce l’energia termica che la fa espandere, consentendole di salire verso l’alto e di dare origine ad una corrente ascensionale[4].

Dunque, come ormai sappiamo, per individuare e comprendere le cause fondamentali dei movimenti delle masse d’aria che determinano la variabilità dei fenomeni meteorologici e le mutazioni climatiche, non è all’atmosfera che bisogna guardare ma alla superfice della Terra.

Detta superfice viene riscaldata dal Sole secondo due modalità ben diverse: in modo regolarmente decrescente secondo la latitudine[5], come avviene prevalentemente nei mari e negli oceani[6], e in modo estremamente irregolare, pur se a parità di latitudine, in funzione della natura del suolo e degli elementi che lo ricoprono, come avviene di regola sulla terraferma.

Dal “colore dei terreni” si desume la capacità di assorbimento dell’energia solare da parte della superfice del nostro pianeta.

Dal “colore dei terreni” si desume la capacità di assorbimento dell’energia solare da parte della superfice del nostro pianeta.

I vari tipi di terreno, infatti (siano essi scoperti o innevati, terrosi o rocciosi, di colore chiaro o scuro), i diversi tipi di vegetazione (rada o fitta, alberata, di prateria o semidesertica con le relative colorazioni più o meno intense), l’esposizione dei versanti delle montagne e i vari tipi di acqua (dolce, salmastra, salata, limpida o torbida) assorbono l’energia solare in modo estremamente vario, e in modo altrettanto vario la restituiscono all’ambiente sotto forma di calore[7].

L’irregolare distribuzione geografica di queste svariatissime condizioni termiche al suolo determina una enorme variabilità negli scambi energetici fra la superfice del pianeta e la soprastante atmosfera, variabilità a sua volta decisiva nella determinazione dell’intensità e della durata dei fenomeni atmosferici: di tali caratteristiche poi, l’intensità dipende dal più o meno accentuato divario termico fra zone contigue di superfice

Scia d'areo invorticata da una corrente ascensionale.

Scia d’areo invorticata da una corrente ascensionale.

(cosa che si nota maggiormente sulla terraferma anche fra luoghi situati a brevissima distanza l’uno dall’altro, come risulta dalla foto a destra, dove appare la scia di un aereo avviluppata nelle spire di una corrente ascensionale di formazione locale), mentre, come sappiamo, la durata dipende dalla persistenza delle condizioni termiche al suolo su vasta scala, come avviene normalmente sui mari e sugli oceani, grazie alla scorta energetica accumulata dalle acque a causa della maggiore profondità (oltre 40 metri) a cui può giungere la radiazione solare rispetto alla scarsissima  profondità (solo una quarantina di centimetri) della penetrazione solare nella terraferma.

Mentre però, l’influenza delle caratteristiche generali del suolo di terraferma sul clima è in certo qual modo prevedibile grazie alla loro relativa persistenza nel tempo[8] (persistenza che consente l’accumulo di dati, i quali portano alla possibilità di elaborare modelli sempre più affidabili anche in presenza di alterazioni rapide delle condizioni ambientali in quanto le loro conseguenze climatiche sono facilmente immaginabili[9]), l’influenza sul clima delle caratteristiche termiche delle superfici marine ed oceaniche è alterata dall’incostante andamento delle grandi correnti oceaniche, le quali, come vedremo, costituiscono il sistema di termoregolazione del nostro pianeta, correnti la cui portata idrica e termica non è immutabile ma segue imprevedibili modalità e durate avulse in apparenza da ogni regola (talvolta i tempi sono lunghissimi e talaltra anche molto rapidi).

Dunque, per comprendere i capricci del clima non resta che rivolgere la nostra attenzione al sistema di termoregolazione del nostro pianeta costituito dalle Correnti Oceaniche, e ciò per comprenderne il funzionamento e possibilmente anche l’origine.

Contrariamente a quanto si crede comunemente, il Sole non è l’unica fonte di calore per gli oceani: se così fosse, infatti, non esisterebbero le correnti oceaniche, poiché, come vedremo in un prossimo articolo, queste sono provocate dal rimescolamento verticale delle acque, rimescolamento che, come abbiamo visto, il calore del Sole impedirebbe rendendo meno dense (e quindi inaffondabili) le acque superficiali.

E tuttavia, le correnti oceaniche esistono[10] e giocano un ruolo determinante nell’ambito delle condizioni termiche della superfice del pianeta, dunque, per ottenere una concreta possibilità di prevedere con largo anticipo e con elevata attendibilità l’andamento del clima, occorre riuscire a prevedere con altrettanto largo anticipo la loro portata idrica e termica.

A questo proposito, in un mio articolo dal titolo “L’andamento climatico si può prevedere” pubblicato il 31 agosto 1990 sul Giornale di Vicenza, scrivevo: “… se si installasse su tutti gli oceani una catena di stazioni di rilevamento fisse tanto in superfice che in profondità, sarebbe possibile raccogliere i dati statistici necessari a costituire la «memoria» di un nuovo sistema di previsione del tempo che avrebbe caratteristiche di elevatissima precisione sia a breve che a lunga scadenza. … Data la portata delle prospettive, dare un’occhiata al sistema di termoregolazione del nostro pianeta per verificare la fondatezza di queste mie teorie è il minimo che si dovrebbe fare!

Ebbene, dopo avere inviato il mio materiale a quanti Studiosi riuscivo a conoscere (persino al Servizio Meteo dell’Aeronautica di Vicenza ed alla Pontificia Accademia delle Scienze, che accoglie Studiosi da tutto il mondo), ben otto anni dopo la mia pubblicazione giunse finalmente la conferma della mia teoria: il 17 maggio 1998, infatti, nella pagina della Scienza del Corriere della Sera, brillava il titolo “Previsioni meteo fino a sei mesi, i primi tentativi funzionano”.

In quello storico (per me) articolo a firma di Guido Visconti, l’autore raccontava come il “Centro europeo per le previsioni a medio termine (ECMWF)” con sede a Reading, in Gran Bretagna, avesse “elaborato per la prima volta una previsione che va oltre la settimana, spingendosi addirittura fino a sei mesi” e ciò basandosi, oltre che sulle prevedibili condizioni continentali, sopratutto su un “modello dell’oceano messo a punto dall’Istituto di meteorologia Max Planck di Amburgo” a partire dal 1991 (dunque un anno dopo le mie pubblicazioni). “Tali progressi – spiegava l’autore dell’articolo – sono dovuti in larga misura all’installazione nell’oceano tropicale di una rete di misura che è in grado di fornire dati di temperatura dalla superfice dell’oceano fino ad una profondità di 500 metri. Inoltre, molti satelliti sono oggi capaci di misurare con continuità dati oceanici anche nelle regioni più difficilmente accessibili”.

Purtroppo, nelle sue elaborazioni, l’ECMWF sembra non tener conto dei processi geologici che portano alla nascita delle correnti oceaniche (processi che pure ho pubblicato nel 1990), e ciò preclude la possibilità di allungare i tempi delle previsioni meteo di quel tanto che agevolerebbe la lotta contro la fame nel mondo: la conoscenza di quei processi, infatti, potrebbe consentire di guadagnare qualche altro mese nelle previsioni, tanto da permettere la programmazione di buona  parte delle colture agricole stagionali e forse anche di parte di quelle annuali.

Al dilà, dunque, delle contraddittorie e indimostrabili teorie tuttora in corso sull’origine delle correnti oceaniche, nei due prossimi articoli (La scienza nel cassetto e Risolto l’enigma delle correnti oceaniche) andremo ad indagare sulle reali origini di questi fondamentali “fattori del clima”, dal comportamento dei quali dipende il futuro climatico del nostro pianeta.


Note

[1]  Dati tratti da Il Tempo di E. Lehr, R. Willi Burnett ed Herbert S. Zim.

[2] Per comprendere meglio i termini del confronto, occorre tenere ben presente che quel 15% di energia catturata dall’aria va diviso fra l’enormità del volume dell’atmosfera, mentre il 43% si concentra tutto nel sottile spessore superficiale del pianeta. Quanto sia forte il divario fra la temperatura del suolo e quella dell’aria soprastante è eloquentemente illustrato dalle temperature che si possono rilevare nel deserto del Karakum, in Turkmenistan: in pieno giorno, la sabbia può raggiungere i 64 gradi mentre l’aria, pur se riscaldata dal riverbero del suolo, già ad un metro e mezzo di altezza raggiunge solo i 34 gradi.

[3] Tali spostamenti verticali delle masse dei fluidi (siano essi aria od acqua) sono detti moti convettivi.

[4] Il fenomeno è facilmente verificabile soprattutto d’estate in riva al mare: poiché sotto il Sole cocente il terreno si riscalda più velocemente dell’acqua del mare e più velocemente di questa si raffredda dopo il tramonto del Sole, anche l’aria soprastante ne subisce le conseguenze; così, a giorno inoltrato l’aria riscaldata sulla terraferma si espande e, divenendo più leggera, si lascia facilmente scalzare dalla fresca brezza proveniente dal mare mentre, a partire dalla tarda serata, avviene il contrario: la terra si è raffreddata appesantendo così l’aria soprastante e questa cala dall’alto e si espande formando la brezza di terra che va a scalzare l’aria, che è rimasta tiepida e meno pesante stazionando sul mare.

[5] La forza del Sole è più concentrata e più forte nella regione equatoriale, dove essa picchia a perpendicolo, e progressivamente sempre meno intensa alle latitudini più elevate dove, a causa della crescente inclinazione della superfice, i raggi si disperdono su superfici sempre più vaste, e dunque diminuisce la loro capacità di riscaldare l’ambiente.

[6] Ciò a causa della quasi totale uniformità delle caratteristiche fisiche delle superfici marine.

[7] Tanto per fare un esempio, in Israele, è da decenni in uso un sistema estremamente economico per riscaldare l’acqua del bagno: sul tetto della casa viene collocato un grosso serbatoio metallico dipinto di nero (e si sa, il metallo è un ottimo conduttore di calore mentre il nero è il colore che più di tutti cattura l’energia solare) e riempito d’acqua salata (ed è noto che l’acqua salata assorbe più calore di quella dolce e lo disperde più lentamente) al cui interno scorre la serpentina del tubo che porta l’acqua da bagno, la quale così si riscalda senza l’uso di combustibili.

[8]  Benché la copertura del suolo (sia essa di foresta, savana, prateria o campagna diligentemente lavorata) sia in continua evoluzione, in condizioni normali i suoi cambiamenti non avvengono mai da un giorno all’altro. Un esempio significativo di tale cambiamento nel tempo è dato dalla costruzione della grande diga sul Nilo, che richiese vari anni per riempire l’invaso che forma all’immenso bacino del Lago Nasser, in Egitto, il cui impatto sul clima regionale è noto.

[9] È questo il caso degli incendi di estensione continentale, che mutano in pochi giorni il tipo di copertura del suolo ed il relativo colore, sulla cui interazione termica suolo-atmosfera è tuttavia possibile fare previsioni attendibili.

[10]  Che su certi percorsi oceanici esistessero dei fenomeni, che abbreviavano i tempi di navigazione in un senso e li allungavano sensibilmente nel senso contrario, come se la navigazione avvenisse col favore della corrente o contro di essa come sui fiumi, era cosa nota da tempo, tanto che nel Nordatlantico, sulle linee tra Regno Unito e Nordamerica, nella navigazione verso Ovest  i mercantili seguivano una rotta notevolmente più meridionale rispetto a quella di ritorno verso Est, rotte la cui conoscenza consentì a Benjamin Franklin di tracciare la prima mappa di una corrente oceanica: la Corrente del Golfo, che tanta benefica influenza esercita sulle regioni nordoccidentali dell’Europa.

El Niňo e la morte dei coralli

Fg. 1: Le barriere coralline, che prosperano in acque pulite e ricche di nutrienti, ospitano una varietà infinita di organismi meravigliosi.

Fg. 1: Le barriere coralline, che prosperano in acque pulite e ricche di nutrienti, ospitano una varietà infinita di organismi meravigliosi..

L’idea che, a provocare la Morte dei Coralli, sia l’aumento della temperatura delle acque causato dal famigerato Riscaldamento Globale, è ormai accettata universalmente, tanto che la si trova riportata nero su bianco in tutti i testi più recenti di Geografia Fisica.

In detti lavori, però, la spiegazione dei fenomeni appare alquanto nebulosa e talvolta contraddittoria, quasi che, intuendo forse l’inconsistenza della teoria, gli Autori si sentano tuttavia obbligati a sostenerla in qualche modo poiché essa è la sola accettata universalmente(1).
A suffragio di detta teoria, vari Autori portano l’esempio della nefasta influenza, che i coralli subirebbero dall’avvento del fenomeno detto El Niño(2) combinato con l’ENSO (l’Oscillazione della pressione atmosferica nell’area centro-meridionale del Pacifico), e lo fanno con date precise e col nome di luoghi in cui sono avvenuti lo sbiancamento e la morìa dei polipi corallini.
Uno di quei casi sarebbe avvenuto nei mesi a cavallo degli anni 1982-83, quando, oltre a violenti sconvolgimenti climatici in tutto il globo definiti i più disastrosi in epoca storica, ed oltre ad estese morìe di pesci e uccelli, El Niño avrebbe causato lo sbiancamento e la morte dei coralli fin lungo le isole dell’Oceano Indiano, e tutto ciò spingendo, su una fascia del Pacifico equatoriale lunga 12.800 Km, una vasta ondata di acqua calda con temperature fino a 8°C superiori a quelle normali!
E allora viene da chiedersi: “Ma quelle temperature definite “normali” sono veramente normali?”
Una situazione simile a quella, che abitualmente avviene nel Pacifico in assenza del Niño, si verifica anche nell’Atlantico dove, proprio in corrispondenza del percorso della Corrente Equatoriale, la temperatura superficiale dell’oceano presenta una diversità di ben 9 gradi fra quella fresca rilevata abitualmente nella parte Est dell’oceano (appena 16 gradi) rispetto a quella calda rilevata ad Ovest (25 gradi), e ciò fa pensare che i due fenomeni, così simili, non siano dovuti ad una fortuita coincidenza…
E dunque viene da chiedersi: quale sarebbe la temperatura da ritenere normale per quelle aree dei due oceani interessate da quei fenomeni?… È la temperatura più fresca rilevata ad Est oppure è quella più calda ad Ovest?
Per rispondere alla domanda, occorre ricordare che le temperature superficiali degli oceani sono spesso alterate dal rimescolamento delle acque prodotto dalle correnti, cosicché, per avere una risposta credibile, bisogna confrontare le temperature in oggetto con quelle rilevabili nei bacini marini non disturbati dalle correnti: ebbene, in area tropicale, detti tranquilli bacini presentano valori di temperatura superficiale compresi fra i 26 e i 28 gradi.
Dunque, appare evidente che, nella fascia tropicale, le temperature da considerare normali sono sicuramente quelle più alte!… Pertanto, se nel settore Est della fascia tropicale del Pacifico, la temperatura delle acque è abitualmente inferiore a quella che normalmente dovrebbe essere sotto l’azione del Sole, è evidente che è tale situazione che costituisce una anomalia termica, benché essa sia un fatto abituale, mentre il ritorno alla temperatura più calda col Niño costituisce un ritorno alla normalità, benché esso sia un evento temporaneo.
Di tutto questo, però, sembra che gli Studiosi non si rendano conto…

Fg. 2  Nella fascia tropicale dell’oceano Pacifico è evidenziata con due tonalità di rosa l’area interessata da El Niño, il fenomeno oceanico considerato una dannosa corrente calda.

Fg. 2 Nella fascia tropicale dell’oceano Pacifico è evidenziata con due tonalità di rosa l’area interessata da El Niño, il fenomeno oceanico considerato una dannosa corrente calda.

L’equivoco nasce dal fatto che, considerando normale lo stato abituale delle temperature superficiali degli oceani rilevate mediante i satelliti, appena questo stato si modifica, viene considerato una anomalia. E ciò benché le acque del Niño raggiungano i 28 gradi, che costituiscono la temperatura normale per quella latitudine quando l’area non è disturbata dalla “fertile” e fresca Corrente Equatoriale (la cui temperatura iniziale è abitualmente di soli 18-19 gradi)..
In tal modo, essi rappresentano con un medesimo tono di colore le diverse situazioni termiche abitualmente presenti nel Pacifico (si veda, nella figura 2, l’omogenea tonalità azzurrina che ricopre tutti gli oceani non evidenziando le innegabili diversità di temperatura rilevate dalle isoterme nella figura 3) diversità dovute alla varia inclinazione dei raggi solari sulla superfice oceanica alle diverse latitudini, ed evidenziano invece con varie gradazioni di rosso il saltuario ritorno della normalità termica dovuta al Niño nella fascia tropicale del Pacifico, producendo così la fuorviante impressione di un surriscaldamento abnorme della medesima area, impressione, alla cui suggestione sembra che gli inconsapevoli Studiosi non sappiano sottrarsi, tanto che nessuno di essi si chiede mai: “Ma surriscaldamento dovuto a cosa, se nei diversi settori della superfice oceanica posti alla medesima latitudine, il Sole picchia con la stessa intensità?

fg. 3  Le diverse temperature della superfice degli oceani sono perfettamente note alla Scienza e accuratamente mappata: perché, allora, non vengono evidenziate con tonalità diverse di colore in modo da non ingenerare equivoci e inammissibili fraintendimenti?

fg. 3 Le diverse temperature della superfice degli oceani sono perfettamente note alla Scienza e accuratamente mappata: perché, allora, non vengono evidenziate con tonalità diverse di colore in modo da non ingenerare equivoci e inammissibili fraintendimenti?

Anche su internet troviamo che uno Studioso di una prestigiosa Università americana(2) attribuisce allo stesso episodio del Niño del 1998, la moria di coralli che colpì l’arcipelago delle Maldive e molte altre aree dell’Oceano Indiano.
Ebbene, tale ipotesi sembra alquanto azzardata, poiché, oltre alla sterminata distanza esistente fra le isole dell’Oceano Indiano e l’area di origine del Niño, lo stesso oceano è separato dal Pacifico dalla possente barriera costituita dagli arcipelaghi delle Filippine e dell’Indonesia; dunque, appare verosimile che la moria di coralli negli arcipelaghi indiani sia una semplice coincidenza con l’avvento del Niño nel Pacifico, coincidenza dovuta a cause locali prodotte dal fatto, che anche quelle isole dell’oceano Indiano sono di origine vulcanica, così come i menzionati arcipelaghi indonesiano e filippino che le proteggono dalle correnti del Pacifico, i quali sono entrambi ricchissimi di vulcani attivi fra i più temibili al mondo(3) .
Quanto sia confusa quella teoria è suggerito da ciò che scrivono altri Autori, i quali, sostenendo la medesima tesi circa l’influenza del Niño sulla decadenza vitale dei coralli, riguardo alla connessione fra El Niño ed ENSO dicono però che: «Sebbene la connessione non fosse sempre rilevabile, tutti questi avvenimenti furono attribuiti alla combinazione El Niño/ENSO»… Dunque, la mancata rilevazione di detta connessione lascia intendere che l’attribuzione di colpa a El Niño è quantomeno arbitraria, frutto di opinioni personali non suffragate da prove scientifiche.

Fg. 4  Ipotesi ufficiale del fenomeno del Niño.

Ma quale potrebbe essere la causa che dà origine al Niño? Da molti anni, l’ipotesi prevalente sembra essere quella che incomprensibilmente indica i colpevoli nei venti Alisei (fg. 4 sopra) i quali, scavalcando da est la Catena Andina dell’Equador e del Perù, produrrebbero ad Ovest di queste una sorta di vuoto simile a quello che si forma dietro le automobili veloci, vuoto che risucchierebbe verso la superfice acque abissali fredde e ricche di nutrienti minerali, le quali, spinte verso Ovest dalla persistente azione degli Alisei, darebbero origine alla fresca e fertilissima Corrente Equatoriale del Pacifico, quella che i pescatori equadoregni e peruviani chiamano La Niña…
Quando, dunque, per qualche motivo gli Alisei cessano di soffiare, ad ovest delle Ande non si formerebbe più il vuoto e questo non richiamerebbe più in superfice le fresche e fertili acque abissali che formano la Niña…
Già il fatto che agli Alisei sia attribuita la capacità di produrre, ad Ovest delle Ande, una depressione tale da risucchiare verso la superfice oceanica le fredde acque abissali (pesanti per l’alto contenuto di sali minerali) è una cosa che lascia perplessi: con una velocità media di 5 metri a secondo, infatti, velocità pari a circa 18 Km orari, difficilmente gli Alisei avrebbero la forza di produrre la straordinaria depressione che viene loro attribuita, spece considerando che il loro fronte di azione è diviso dalla larga fascia definita equatore termico, al cui interno gli Alisei si riducono a deboli brezze o addirittura cessano del tutto.
Ma poi, se fossero gli Alisei il motore che forma la Niña e la spinge verso Ovest, quale dovrebbe essere la forza che darebbe origine a quella che è definita la “vasta ondata di acqua calda che, inoltrandosi nel Pacifico equatoriale“ formerebbe El Niño? Certamente, non la forza di venti occidentali contrari agli Alisei, perché quei venti si muoverebbero in direzione opposta a quella attribuita al Niño, e dunque? La domanda sembrerebbe destinata a non avere risposta!

Fg 5 Si noti l'alta concentrazione di vulcani fra Galapagos, Equador e Perù.

Fg 5 Si noti l’alta concentrazione di vulcani fra Galapagos, Equador e Perù.

C’è anche un’altra domanda che richiede una spiegazione seria: poiché l’imponente Cordigliera delle Ande costeggia tutta la sponda sud-americana del Pacifico, perché mai solo in corrispondenza della costa equadoregna e peruviana si verificano i fenomeni detti el Niño e la Niña?… Cosa c’è su quel limitato tratto di costa che non esiste su tutto il resto della sponda sudamericana del Pacifico?

La risposta è semplice: lungo quella costa, c’è una straordinaria concentrazione di grandi vulcani attivi (tanto che sulle Ande equadoregne se ne contano più di 50) e i vulcani sono numerosi anche al largo di essa, in corrispondenza del vicino Arcipelago delle Galapagos.
Ebbene, alla base di quelle due estese concentrazioni vulcaniche è abitualmente attivo un vastissimo apparato idrotermale, il quale vomita negli abissi acque caldissime arricchite di nutrienti minerali.
Data la loro altissima temperatura iniziale (intorno ai 400°), quelle acque schizzano verso l’alto disperdendo per via calore e nutrienti, coinvolgendo così nella risalita masse crescenti di altra acqua fertilizzata, la cui temperatura però decresce in proporzione inversa al loro volume, cosicché alla fine esse presentano una temperatura inferiore rispetto a quella delle acque superficiali riscaldate dal Sole: attardandosi però per inerzia rispetto alla rotazione terrestre, le fertili acque risalite dagli abissi scorrono sotto le calde acque superficiali, alle quali si mescolano poi per attrito abbassandone la temperatura e trascinandole con sè verso Ovest.

Fg 6  Il Plancton costituisce la delicatissima base su cui poggia tutta la catena alimentare marina: nell'acqua "fertile", il fitoplancton trasforma i nutrienti minerali in sospensione nella sostanza organica di cui si nutre lo zooplancton, ed entrambi forniscono, direttamente o indirettamente, il cibo a tutti gli animali superiori, dal pesciolino più piccolo al più grande predatore... E tutto grazie ai nutrienti minerali trasportati in giro fra mari ed oceani dalle acque "iniettate" negli abissi dai comprensori idrotermale "attivi" collegati ai grandi apparati vulcanici sottomarini o prossimi alle coste.

Fg. 6 Il Plancton costituisce la delicatissima base su cui poggia tutta la catena alimentare marina: nell’acqua “fertile”, il fitoplancton trasforma i nutrienti minerali in sospensione nella sostanza organica di cui si nutre lo zooplancton, ed entrambi forniscono, direttamente o indirettamente, il cibo a tutti gli animali superiori, dal pesciolino più piccolo al più grande predatore… E tutto grazie ai nutrienti minerali trasportati in giro fra mari ed oceani dalle acque “iniettate” negli abissi dai comprensori idrotermale “attivi” collegati ai grandi apparati vulcanici sottomarini o prossimi alle coste.

Risalendo verso la superfice, infatti, le acque abissali si allontanano dall’asse di rotazione terrestre, trovandosi così a dover percorrere nelle 24 ore circonferenze sempre più lunghe rispetto a quella che percorrevano sul fondo degli abissi e questo, tendendo esse a mantenere per inerzia la velocità di rotazione iniziale(4), ne provoca un progressivo attardamento rispetto all’ambiente circostante… Ed è così che ha origine la Niña, la corrente fresca portatrice di vita rigogliosa per le creature del mare e prosperità per la locale industria della pesca.
Dunque, il Vero Motore di questa come di altre Correnti Oceaniche non è costituito dai venti dominanti o da altre fantasiose cause, ma è l’attardamento per inerzia verso ovest delle acque abissali in risalita dal fondo degli oceani!

Quando tuttavia, alla base della su menzionata concentrazione di vulcani, avviene una forte riduzione o addirittura una cessazione dell’attività idrotermale(5), si riduce fortemente o addirittura cessa anche la risalita dagli abissi dell’acqua fertile, cosicché, rimanendo immobile sotto il Sole dei Tropici, la superfice dell’oceano viene riscaldata fino a riportarne la temperatura ai livelli naturali per quella latitudine, mentre la carenza o la mancanza di nutrienti in risalita dal fondo semina strage nell’ambiente sommerso, provocando apocalittiche morìe del plancton, dei pesci che di esso si nutrono e di quelli di cui gli stessi sono preda, e poi degli uccelli che dei pesci si cibano e, infine, anche dei coralli i quali, pur se situati lontanissimi dall’area da cui hanno origine le acque fertili, non ricevendo più il consueto nutrimento deperiscono sbiancandosi per morire poi d’inedia.
Dunque, la vera causa di questa immane tragedia è la stasi delle grandi emissioni idrotermali da parte dei comprensori vulcanici peruviano, equadoregno e delle Galapagos, stasi a cui consegue l’immobilità delle acque evidenziata dal riscaldamento solare della loro superfice: e nasce El Niño!

Note

1 Un comportamento simile da parte degli Studiosi è stato notato anni fa, subito dopo che due noti scienziati dettero al mondo il sensazionale annuncio della realizzazione della “fusione a freddo”: subito, infatti, numerosi loro colleghi vollero ripetere l’esperimento secondo le modalità indicate dagli eroi del momento, e molti di loro riferirono esultanti di esserci riusciti. Dopo qualche tempo, però, essendo stato accertato da Istituti Scientifici seri, che l’esperimento non funzionava, sull’intera faccenda scese il silenzio, e molti sperarono che tutto finisse nell’oblio.

2 Fra tanti altri, tale argomento è riportato anche in un ponderoso volume pubblicato nel 2002 da un paio di Autori di Area anglosassone, Area dalla quale, si sa, provengono le teorie più varie, le quali di regola, dal Mondo Scientifico internazionale vengono accolte con ossequio-sa reverenza, come fossero rivelazioni ispirate dal Celo (e la Scienza italiana non fà eccezione). (NB: non cito mai il nome degli Autori dalle cui teorie dissento per correttezza nei loro confronti, affinché non si sentano attaccati personalmente senza che su queste pagine possa essere loro garantito il diritto di replica).

3 Sulla fondamentale importanza degli apparati vulcanici (spece quelli sottomarini) nella genesi delle correnti oceaniche abbiamo già parlato in altri articoli, comunque, riparleremo della cosa anche in questo.

4 Ovviamente, dovendo muoversi in acque dotate di velocità di rotazione crescente man mano che risalgono dall’abisso, le acque di origine idrotermale ne subiscono in parte il trascinamento, cosicché, giunte alla superfice, esse non conservano la loro bassa andatura iniziale ma sono un po’ meno lente, ed è questa loro lentezza che le fa apparentemente muovere verso Ovest!

5 È possibile che quella riduzione dell’attività idrotermale sia provocata da un forte calo della pressione interna all’apparato vulcanico, calo dovuto verosimilmente allo sfogo della stessa pressione prodotto da qualche prolungata eruzione (sia essa sub-aerea o sottomarina) che si verifica in zona. Questa ipotesi, lo dico per i Professionisti della Ricerca scientifica, meriterebbe una attenta verifica da parte dei Vulcanologi, ai quali non dovrebbe risultare difficile individuare, in quell’area, l’eventuale evenienza di eruzioni vulcaniche (siano esse subaeree o sottomarine) nell’immediata precedenza e in concomitanza con l’avvento del Niño.

La morte dei coralli

Esempi di coralli

Fg. 1 Una barriera corallina in salute presenta una fittissima e straordinaria varietà di forme viventi, le quali la rendono tanto meravigliosa da non temere confronti con qualsiasi altro luogo della Terra

In un documentario (inglese?) dal titolo OCEANI (messo in onda da RAI 5 l’8 gennaio 2015), durante una spedizione di studio nel Mar Rosso meridionale, due scienziati (un uomo e una donna) si immergono in profondità fra le pareti del baratro tettonico che separa la placca continentale africana da quella araba.
Entrando nella zona più angusta di una profonda spaccatura, larga forse solo tre metri, essi vi rilevano una temperatura dell’acqua straordinariamente elevata, intorno a 34 gradi C., temperatura che, secondo l’opinione corrente della Scienza, dovrebbe causare la morte dei coralli della zona poiché, in tutte le barriere coralline in cui si verifica lo sbiancamento dei coralli seguito dalla loro morte, l’ambiente è caratterizzato dall’innalzamento della temperatura delle acque attribuito, neanche a dirlo, dal famigerato Riscaldamento Globale.
Secondo la Scienza infatti, provocando l’innalzamento delle temperature degli oceani, il Riscaldamento Globale ucciderebbe le microalghe simbiotiche dei coralli che, grazie alla fotosintesi clorofilliana, producono il nutrimento dei polipi corallini, i quali, con la loro scomparsa, prima perderebbero il colore e poi morirebbero d’inedia.
Ebbene, con somma meraviglia dei due scienziati del documentario, nell’area calda da essi esplorata i coralli sono invece in pieno rigoglio, tanto che di notte, esposti alla luce ultravioletta, essi risplendono meravigliosamente per la loro fluorescenza.
Come si spiega tale contraddizione ai dettami della Scienza?
Un tentativo di risposta viene suggerita dagli stessi due studiosi, che riportano quanto sostiene la teoria di non so quale rispettabilissimo scienziato, secondo il quale sarebbe la fluorescenza che, proteggendo in qualche modo le microalghe dalla forza letale del Sole, ne garantirebbe la salute anche in ambiente avverso, consentendo in tal modo anche la sopravvivenza dei polipi del corallo.
Sarà!… Ma le cose stanno veramente così?…
In realtà, infatti:

emissioni di vapore ad altissima temperatura da uno "sfiato" idrotermale alla base di un comprensorio vulcanico abissale. La densità ed il colore del getto lasciano facilmente intendere quanto forte sia la carica di composti minerali che donano elevata fertilità alle acque in risalita dal fondo (a destra), fertilità che garantisce un'elevatissima capacità di sostentamento della flora e della fauna nell'area marina interessata dal fenomeno.

Fg. 2 emissioni di vapore ad altissima temperatura da uno “sfiato” idrotermale alla base di un comprensorio vulcanico abissale. La densità ed il colore del getto lasciano facilmente intendere quanto forte sia la carica di composti minerali che donano elevata fertilità alle acque in risalita dal fondo. 

1- La fluorescenza delle microalghe è prodotta dall’assorbimento da parte loro di elementi radioattivi di origine magmatica immessi nelle profondità delle barriere coralline dall’attività idrotermale in atto nelle spaccature tettoniche e negli apparati vulcanici sottomarini.
2- Di norma, risalendo dalle spaccature tettoniche attive, dove è stata surriscaldata dal contatto col magma e resa fertile per i minerali che da esso riceve, l’acqua profonda si raffredda per via cedendo calore a masse crescenti di altra acqua che coinvolge nella risalita, cosicché in superfice giunge una quantità d’acqua enormemente superiore a quella iniziale, la cui temperatura, tuttavia, risulta inferiore a quella delle acque superficiali riscaldate dal Sole, con le quali poi essa si mescola per attrito rinfrescandole…
Ed è appunto da tale meccanismo che deriva la temperatura mite delle acque nelle zone di barriera.

La carica di composti minerali espulsi dai sistemi idrotermali sottomarini donano elevata fertilità alle acque in risalita dal fondo garantendo  un'elevatissima  capacità di sostentamento della flora e della fauna nell'area marina interessata dal fenomeno.

Fg 3 La carica di composti minerali espulsi dai sistemi idrotermali sottomarini donano elevata fertilità alle acque in risalita dal fondo garantendo un’elevatissima capacità di sostentamento della flora e della fauna nell’area marina interessata dal fenomeno.

3- Quando però, l’attività magmatica profonda si attenua o ristagna, diminuisce o addirittura cessa anche la risalita delle acque fertili profonde, cosicché, mancando la loro presenza rinfrescante, le acque di superfice riacquistano la temperatura elevata dovuta al riscaldamento da parte del Sole dei tropici: temperatura elevata, dunque, che non è la causa del deperimento dei coralli ma costituisce il segnale, che qualcosa è cambiato nel sistema nutrizionale della zona.
Dunque, che garantisce la salute e la proliferazione dei coralli è la carica di nutrienti minerali trasportati verso la superfice dalle acque fertili risalenti dal fondo, nutrienti che, favorendo la vita del fitoplancton e delle microalghe che vivono in simbiosi coi coralli, consentono il meraviglioso sviluppo di vita vegetale ed animale che caratterizza le barriere coralline.
Pertanto, è possibile affermare che il deperimento dei coralli in determinate aree di barriera degli oceani NON DIPENDE DAL RISCALDAMENTO GLOBALE, ma è dovuto alla penuria di nutrienti minerali causata dalla minore risalita dal fondo di acque fertili dovuta al rallentamento (quando non addirittura alla stagnazione) dell’attività idrotermale collegata alla presenza più o meno vivace di attività magmatica all’interno delle spaccature tettoniche e degli apparati vulcanici sottomarini.
Tutti questi discorsi, però, sembrerebbero contraddetti dalla elevata temperatura ambientale rilevata dai due scienziati all’interno dell’immane spaccatura della crosta all’estremo sud del Mar Rosso: infatti – si dirà – poiché, come abbiamo visto, cedendo calore per via, l’acqua di origine profonda si raffredda abbassando poi la temperatura delle acque superficiali riscaldate dal Sole, se la temperatura dell’acqua riscontrata dai due studiosi è così elevata, ciò dovrebbe significare che c’è scarsa risalita di acque fertili dal fondo del mare, cosicché i coralli dovrebbero essere in agonia. Come si spiega, invece, il loro straordinario rigoglio?
La risposta è facile ed è data dall’angustia dell’ambiente in cui è stata rilevata l’anomalia termica: la ristrettezza del baratro tettonico, infatti, limita il rimescolamento dell’acqua fertile in risalita dagli abissi con le fredde acque stazionanti nelle circostanti profondità marine, cosicché detta acqua fertile può conservare una maggiore quantità della carica termica iniziale, e ciò spiega l’elevata temperatura riscontrata dagli studiosi al livello della barriera corallina…

Fg 4 L'angustia del baratro, attraverso il quale le calde acque di origine idrotermale salgono verso la superfice, consente un minore rimescolamento delle acque stesse con quelle fredde stazionanti nelle profondità, cosicché esse possono raggiungere la barriera corallina conservando una maggiore quantità di calore ed una maggiore concentrazione di nutrienti minerali.  (in primo piano, le apparecchiature di rilevamento di un minisommergibile teleguidato).

Fg. 4 L’angustia del baratro, attraverso il quale le calde acque di origine idrotermale salgono verso la superfice, consente un minore rimescolamento delle acque stesse con quelle fredde stazionanti nelle profondità, cosicché esse possono raggiungere la barriera corallina conservando una maggiore quantità di calore ed una maggiore concentrazione di nutrienti minerali.
(in primo piano, le apparecchiature di rilevamento di un minisommergibile teleguidato).

Ma non solo: infatti, il limitato rimescolamento delle acque limita anche la diluizione della carica dei nutrienti minerali di provenienza abissale da esse trasportati verso la superfice, nutrienti, la cui maggiore concentrazione favorisce appunto lo straordinario rigoglio dei coralli evidenziato nel documentario, inoltre, il loro più concentrato contenuto di elementi radioattivi di origine magmatica, assorbito con gli altri nutrienti dalle microalghe, ne impregna i tessuti, dando così ragione della straordinaria e splendida fluorescenza dei coralli alla luce ultravioletta, che tanto ha meravigliato i due studiosi in immersione lungo la barriera corallina all’estremità meridionale del Mar Rosso!

Clima 1: cicloni e anticloni, gli scherzi della pressione atmosferica

ciclone1

Vortice sul mediterraneo occidentale

Da molti mesi ormai (siamo a fine maggio del 2014) il tempo fa le bizze in modo incontrollato, sferzando l’Europa con una sequenza interminabile di perturbazioni, che si susseguono con una media di una ogni tre giorni.
E si ha un bel dire che le vaste aree di alta pressione, che si presentano fra una perturbazione e l’altra, dovrebbero stabilizzare il tempo o, quanto meno, frenare l’avanzata del maltempo verso le nostre regioni: rapidamente come si sono formate, quelle aree di stabilità si dissolvono vigliaccamente senza opporre resistenza.
A fronte di tale situazione, viene spontaneo il raffronto col clima straordinariamente mite e asciutto dell’autunno-inverno e della primavera di qualche anno fa, quando, per dare un po’ di speranza al mondo dell’agricoltura in grande allarme per il persistere della siccità invernale e primaverile, i meteorologi mostravano le grandi perturbazioni atlantiche, le quali si avventavano sull’Europa cariche di promesse di pioggia per le nostre regioni, ma che, giunte in vista delle coste mediterranee, viravano sgommando a Nord-Est respinte da una vasta area di alta pressione saldamente ancorata sul mar Tirreno.
E viene spontaneo anche il ricordo della storica e interminabile calura del 2003, la quale oppresse le nostre regioni con temperature insopportabili ed una siccità senza fine provocata da una vasta e robustissima “bolla” di alta pressione che, ancorata sul Tirreno, dominava sul Mediterraneo.
Ma allora, si dirà, per quale motivo quest’anno l’alta pressione non riesce a bloccare il maltempo per restituirci un clima più equilibrato?

ciclone2

Si noti l’immane vortice che interessa tutto il Nord Atlantico: il fatto che sia stabilmente “ancorato” lungo il corso della Corrente del Golfo in un’area poco a sud dell’Islanda ci attesta che si tratta di una “depressione madre”.

Benché non se ne senta mai parlare, la risposta a tale legittima domanda non è difficile ma richiede un po’ di attenzione, poiché si basa su una classificazione delle aree di alta pressione riferita alle diverse modalità che portano alla formazione di dette aree, modalità che determinano la loro resistenza o la loro vulnerabilità rispetto alle perturbazioni.
Contrariamente a quanto affermano i sostenitori della teoria sull’effetto serra, alla base di tutto il meccanismo del clima c’è la temperatura del suolo (cioè della superfice del pianeta, sia essa di terraferma o di mare) temperatura che, se è elevata, provoca il riscaldamento dell’aria soprastante determinandone la dilatazione con conseguente spinta verso l’alto: tale meccanismo, infatti, dà origine tanto ai semplici mulinelli d’aria quanto ai più terrificanti uragani .
In determinati casi, però, quando le condizioni di temperatura sono “ancorate” ad una determinata area geografica, il fenomeno dà origine ad una depressione non violentissima ma molto estesa che, con un’immagine colorata, potremmo definire “depressione madre”, perché dà origine ad una serie continua di vortici ciclonici, i quali si dirigono ad est andando ad investire i territori continentali, sui quali scaricano a ritmo incalzante la loro energia sotto forma di tempeste di vento e di precipitazioni copiose, proprio come avviene da mesi in Europa ad opera della Depressione d’Islanda.
Al contrario, se la superfice al suolo è fredda, anche l’aria soprastante si raffredda, cosicché essa si addensa e, divenendo pesante, si abbassa verso il suolo dilagando poi lateralmente.
Di conseguenza, la discesa di tale massa d’aria risucchia verso il basso l’aria soprastante, dando così origine ad un ampio movimento discendente caratterizzato da una rotazione in senso orario[1], che possiamo immaginare come un enorme gorgo atmosferico[2], gorgo definito dai tecnici “vortice anticiclonico” perché, essendo formato da aria asciutta[3], è in grado di fagocitare o di respingere le perturbazioni.
Ebbene, l’efficacia di tale gorgo anticiclonico è dovuta al fatto che esso è ancorato alla superfice “fredda” che lo ha originato, la quale è in grado di mantenerlo attivo a tempo indeterminato, consentendogli, appunto, di esercitare la sua azione stabilizzatrice anticiclonica per tutto il tempo in cui essa rimane “fredda” (come avviene nel caso dell’Anticiclone delle Azzorre).
Con l’aumento della pressione atmosferica e col conseguente riscaldamento (fenomeni dovuti entrambi alla compressione che avviene nel corso della discesa nel gorgo) l’aria secca proveniente dalle alte quote assume una crescente capacità di assorbire umidità, capacità che le consente di fagocitare le perturbazioni che le si avvicinano sottraendo loro l’umidità delle nubi così da mantenere il sereno; oppure, addirittura, quando il gorgo anticiclonico è veramente potente, la spinta dilagante delle sue masse d’aria riesce a respingere l’avanzata delle perturbazioni costringendole a cambiare la direzione della loro corsa, esattamente come avveniva nei lunghi periodi siccitosi descritti all’inizio.
Ebbene, si dirà, perché non avviene così anche ai nostri giorni? Cosa rende tanto deboli e fugaci i cosidetti “promontori di alta pressione” che si alternano con l’interminabile sequenza delle perturbazioni che ci affliggono da mesi?

Foto da satellite del 22 agosto 2011: si noti la vasta area priva di nubi che interessa tutto il bacino del Mediterraneo mentre le perturbazioni di origine atlantica sono costrette a scorrere a nord delle Alpi, e si noti il vortice situato sul Golfo di Biscaglia, la cui “coda”, penetrata nel Mediterraneo occidentale (la leggera fila di nubi orientata N-S) si sta dissolvendo assorbita dal “gorgo” anticiclonico ancorato sul mar Tirreno, la cui azione stabilizzante si estende ad Oriente grazie ai venti dominanti.

Foto da satellite del 22 agosto 2011: si noti la vasta area priva di nubi che interessa tutto il bacino del Mediterraneo mentre le perturbazioni di origine atlantica sono costrette a scorrere a nord delle Alpi, e si noti il vortice situato sul Golfo di Biscaglia, la cui “coda”, penetrata nel Mediterraneo occidentale (la leggera fila di nubi orientata N-S) si sta dissolvendo assorbita dal “gorgo” anticiclonico ancorato sul mar Tirreno, la cui azione stabilizzante si estende ad Oriente grazie ai venti dominanti.

Quella Cosa è il fatto che i “promontori di alta pressione” non sono “ancorati al suolo” come i gorghi anticiclonici generati dalla bassa temperatura superficiale di determinate aree geografiche, ma sono generati dall’espansione dell’aria asciutta dilagante dai margini di un ampio anticlone e  risucchiata ad opera dei vortici ciclonici attivi nelle vicinanze, tant’è vero, che essi non si producono mai come fenomeni autonomi ma (come suggerisce il nome promontorio) costituiscono sempre una propaggine di un gorgo vero e proprio situato nelle vicinanze; inoltre, la pressione atmosferica al loro interno non è mai molto elevata o, comunque, non raggiunge mai livelli paragonabili a quelli che si possono verificare nel cuore del gorgo che li alimenta: dunque, benché portino condizioni di bel tempo, non essendo ancorati all’area geografica in cui si formano, i promontori di alta pressione vengono trascinati in qua o in là dal risucchio generato dagli spostamenti dei vortici ciclonici.
Dunque, l’azione stabilizzatrice sul clima da parte delle aree anticloniche è condizionata dalla loro genesi, cosicché si ha:

  • alta efficacia e lunga persistenza da parte dei gorghi anticlonici ancorati all’area geografica che, con le basse temperature al suolo, li genera e li mantiene attivi[1].
  • scarsa efficacia, breve durata e mobilità dei promontori di alta pressione (costituiti da aria asciutta proveniente da lontano) attirati dal risucchio prodotto da potenti vortici ciclonici in movimento.

A questo punto, qualcuno si chiederà da cosa dipenda il “raffreddamento al suolo” delle aree geografiche in cui si formano i gorghi anticiclonici più potenti e persistenti.
Ebbene, poiché la risposta a tale quesito richiede un lungo discorso, invito il Lettore a leggere gli articoli che seguono, a partire da quello che porta il titolo Alle origini dei fenomeni climatici.


 

Note

1) Oltre all’innesco iniziale del vortice prodotto dal calore ricevuto al suolo, a determinare l’ingrossamento del vortice stesso fino alle grandi dimensioni è l’energia termica rilasciata nell’aria dall’umidità in essa contenuta, umidità che condensa cedendo calore a causa della progressiva diminuzione della pressione atmosferica dovuta alla risalita in quota.
Ed è appunto tale capacità di autoalimentarsi, che consente agli uragani di muoversi poi in modo indipendente dalle condizioni di temperatura al suolo.2) L’attuale alta frequenza e la violenza di tali “figli” è dovuta all’insolita forza della Depressione d’Islanda, forza generata dal contrasto fra la bassa temperatura che caratterizza le acque del Nordatlantico (spece nei periodi tardo-autunnale, invernale e primaverile) e la straordinaria carica termica trasportata dalla Corrente del Golfo dovuta probabilmente ad un inconsueto aumento della sua portata idrica.
3) Sia la rotazione in senso antiorario dei vortici ciclonici che la rotazione in senso orario dei gorghi anticiclonici sono caratteristiche dell’Emisfero Nord, mentre nell’Emisfero Sud i sensi di rotazione si inverrtono.
4)  Al pari dei gorghi che si formano nell’acqua, questo tipo di vortice anticiclonico presenta un’area centrale ben definita, all’interno della quale la pressione atmosferica è massima, e una vasta area marginale grossomodo circolare, nel cui ambito la pressione diminuisce gradualmente fin sulle fasce di confine con le aree depressionarie, alle quali fornisce l’aria che quelle attraggono
.5) Poiché l’umidità dell’aria è direttamente proporzionale alla temperatura ed alla pressione dell’aria stessa, alle quote elevate, dove la pressione atmosferica e la temperatura sono molto basse, l’umidità dell’aria è minima.
6) E questo spiega perché, in assenza di tali condizioni, le perturbazioni atlantiche possano entrare tanto facilmente nel Bacino Mediterraneo e flagellare con così inusitata frequenza le nostre regioni.
 
[Scarica l’opuscolo:  CLIMA 1  (PDF 0,4 MByte)

Refrontolo: dopo l’ennesima tragedia, bufera di polemiche e indagini

Valdagno 3 agosto 2014

«La Protezione Civile non ci ha avvertito del pericolo!» diceva il sindaco di Refrontolo (TV) intervistato dopo la tragedia abbattutasi sulla Sagra dei Òmeni, ed ora si cerca di capire come il fatto possa essere avvenuto. Ma c’è poco da dire: i Meteorologi avevano segnalato la possibile evenienza di temporali di forte intensità nella nostra Regione, dunque, data la situazione orografica dei luoghi in cui doveva avvenire la Sagra, era compito delle Autorità locali prendere i provvedimenti del caso… e questi non potevano che essere l’annullamento o il rinvio della manifestazione.
Si dirà che è troppo facile parlare col senno di poi, ma non è così, perché il luogo sembrava scelto apposta per provocare guai.
Innanzitutto, in caso di forte nubifragio, l’angustia della valle nella zona del Molinetto della Croda e il lieve dislivello fra il piazzale della festa ed il greto del torrente lasciavano facilmente intuire la possibilità di una esondazione, tuttavia, se il montare delle acque fosse avvenuto con la naturale gradualità, la gente avrebbe potuto mettersi agevolmente in salvo e non ci sarebbero state vittime.
La tragedia, invece, è avvenuta a causa di uno sbarramento di detriti trascinati a ridosso di un ponte situato poco a monte del luogo della festa, sbarramento che, dopo aver prodotto un piccolo lago artificiale, ha ceduto all’improvviso precipitando a valle i detriti e l’ingente massa d’acqua al seguito

Ponte San Paolo  (Vicenza)

Si noti, sullo sfondo, l’alta arcata del ponte di S.Michele, a Vicenza: costruito ai tempi della Serenissima, esso non ostacola assolutamente il deflusso delle piene, a differenza di ponte di S. Paolo, in primo piano, costruito solo un secolo fa.

Dunque, la causa prima della tragedia è il ponte che ha impedito il libero deflusso dei detriti trasportati dalla piena.
Sciagure di questo tipo non sono rare in Italia, e questo perché, a differenza di quanto accadeva nell’antichità, in cui i ponti erano costruiti con ampie arcate che non riducevano la sezione dell’alveo dei fiumi ma la superavano in ampiezza per garantire sempre il deflusso delle acque di piena e degli immancabili detriti, noi oggi costruiamo robusti ponti in cemento armato, le cui campate sono piazzate ad un livello più basso del ciglio degli argini per consentire alle strade di mantenersi piane, a livello campagna, evitando così la bruttura delle rampe alle due estremità del ponte.
In tal modo, però, noi riduciamo lo spazio attraverso il quale devono passare le acque di piena (che magari a monte erano agevolmente contenute dagli argini) e facilitiamo l’ingorgo dei detriti galleggianti che tale spazio riducono ulteriormente (quando non lo ostruiscono come nel caso in oggetto).

Infine, prendo lo spunto dalla foto dei ponti di Vicenza per parlare del vecchio ponte detto di Pusterla, il quale presenta due grandi arcate che sostengono un piano stradale caratterizzato da due rampe piuttosto pronunciate, tanto che per secoli le piene sono passate sotto di esso senza procurare danni…
Questo fino a qualche anno fa, quando la spinta prodotta da una piena straordinaria sembra che abbia recato qualche dissesto nella struttura del manufatto minacciandone la stabilità.
Ebbene, certo su consiglio di tecnici qualificati, l’Amministrazione comunale è corsa subito ai ripari facendo eseguire una poderosa opera di rafforzamento della sede stradale tesa ad irrigidire l’intera struttura al fine di rafforzarne la resistenza alla spinta delle piene, e questo senza chiedersi il perché del pericoloso evento!
Se qualcuno si fosse rivolto quella domanda, forse avrebbe ottenuto questa risposta: «Le piene straordinarie non hanno un perché: càpitano e basta! »
Risposta errata!… Le piene straordinarie càpitano quando càpitano ma fanno danni solo quando l’alveo del fiume non è in grado di contenerle… E questo è proprio il caso del ponte di Pusterla.

Ponte Pusterla (Vicenza)

All’ex mulino che si vede sullo sfondo corrisponde, sulla riva opposta, la presa d’acqua e la ruota di un altro ex mulino, entrambi funzionanti un tempo grazie alla grande briglia visibile nella foto, esattamente come avviene poco a monte del ponte. La briglia in foto rialza il piano di scorrimento delle acque di almeno 2 m.

Premesso che le piene eccezionali sono dovute a precipitazioni eccezionali (e queste aumentano di intensità col riscaldamento del clima), ricordiamo che quando l’alveo del Bacchiglione fu alterato dalla costruzione, forse un secolo fa, di due ampie briglie (una a monte ed una a valle del ponte per convogliare l’acqua verso le ruote dei mulini attivi un tempo sulle due sponde ma inattivi già da molti anni) evidentemente il clima non era ancora giunto ai livelli estremi attuali, tuttavia, le piene, che si sono susseguite a ritmo crescente negli ultimi anni, avrebbero dovuto allertare le autorità e indurle a chiedersi se non fosse il caso di eliminare almeno la parte centrale della briglia a valle ormai in disuso da molti decenni, per consentire di abbassare forse di due metri l’alveo sotto le arcate del ponte riportandolo ai livelli originari, cosa che, visto l’andamento del clima, sarebbe consigliabile fare anche se l’emergenza sembra ormai passata.

 


Valdagno 7 agosto 2014

Nei giorni successivi alla tragedia di Refrontolo, gli Amministratori locali hanno mostrato, documenti alla mano, che l’intera valle a monte del Molinetto della Croda era stata dichiarata dai Geologi esente da rischio idrogeologico.

Se per “rischio idrogeologico” si intende “pericolo di frane e smottamenti dovuti a cedimenti strutturali della montagna”, a giudicare dalla tipologia e dalla giacitura degli strati rocciosi della zona quella dichiarazione dei tecnici appare corretta.

Tuttavia, la ristrettezza della gola in cui è avvenuta la tragedia lascia intendere che, grazie ai detriti alluvionali, in caso di piena il torrente assume una capacità di erosione notevole; capacità certo dovuta alla presenza, a monte del sito, di un “bacino imbrifero” di tali dimensioni da consentirgli, in caso di nubifragio, di raccogliere una quantità d’acqua e detriti potenzialmente molto pericolosa.

Ma i Geologi non sono Climatologi, così, evidentemente, di questo fatto essi non erano tenuti ad avere cognizione e non ne hanno tenuto conto, così come non ne hanno tenuto conto i Tecnici che hanno progettato il modesto viadotto a monte del Molinetto della Croda: quel ponte basso sull’acqua, che ha bloccato ramaglie, balle di fieno ed altri detriti, i quali hanno provocato la formazione di un lago, le cui acque di piena dapprima sono tracimate provocando l’innalzamento del torrente fino a superare di mezzo metro il piazzale della festa, allagando anche il capannone ma non allarmando le persone che anzi si sono perse a riprendere la scena (e fra queste anche i quattro che poi sono morti); poi, col cedimento improvviso dello sbarramento, la massa d’acqua e di detriti del laghetto a monte del ponte è precipitata travolgendo tutto: capannone con tutti gli arredi, automobili  e persone.

D’altra parte, benché il buon senso non dovrebbe mancare a degli Amministratori pratici della “fisiologia” del loro territorio, essi non sono tenuti a giudicare i pareri dei Tecnici: a scanso di responsabilità spiacevoli, infatti, ad essi basta adattare le loro scelte a detti pareri e poi metterli al sicuro in archivio, a futura memoria in caso di guai, proprio com’è avvenuto a Refrontolo!

Per evitare la tragedia, sarebbe forse bastato che qualcuno, pratico dei luoghi e dei problemi che possono derivare dai capricci del clima, avesse compreso che si stava innescando una trappola  mortale e avesse dato l’allarme: ho detto però forse, e questo perché spesso la folla in festa non bada agli allarmi se non quando è troppo tardi, spece se detti allarmi richiedono spiegazioni che non interessano ai gaudenti e se, come avviene di solito, sono lanciati da persone non autorevoli.

Da ciò, a mio parere, si comprende chiaramente quanto potrebbe essere utile la formazione, nell’ambito della Protezione Civile, di persone pratiche del territorio e preparate ad affrontare i vari problemi che potrebbero interessarlo: dunque, non individui specializzati (come i geologi, ad esempio), ché quelli non mancano certo nella nostra Regione, ma persone dotate di vaste conoscenze (non specialistiche) e di buon senso, capaci di lavorare in squadra e di collegare tra di loro fatti inerenti a diverse discipline scientifiche, al fine di farne una sintesi tesa a fornire una panoramica d’insieme delle situazioni di rischio, panoramica che la Protezione Civile Alpina, col prestigio derivante dalle benemerenze acquisite in anni di attività, potrebbe sottoporre all’attenzione delle Autorità con qualche non remota speranza di ottenere udienza.

Effetto serra? … Bah!

TerraLe cause reali delle mutazioni climatiche prospettive di controllo del clima

Negli ultimi anni “80, non trovando convincenti le argomentazioni dei sostenitori della teoria denominata “EFFETTO SERRA”, come mia consuetudine  affrontai lo studio dell’intera materia con approccio rigorosamente multidisciplinare.  Tale studio mi portò a conclusioni del tutto diverse da quelle proposte dagli studiosi, con i quali mi trovavo d’accordo solo per le preoccupazioni riguardo alla salute dell’ambiente, salute che mi è sempre stata a cuore fin da ragazzo.

Agli inizi del 1990 ebbi la fortuna di vedermi pubblicato sul Giornale di Vicenza un primo articolo (il 18 gennaio, data storica per me) al quale, sull’onda dell’interesse suscitato dalle mie argomentazioni, seguirono presto numerosi altri articoli, dei quali presento qui una sintesi spero chiara ed esauriente.

Scarica Articoli:

1. Cicloni e anticloni, gli scherzi della pressione atmosferica   (PDF 380 KByte)

2. Alle origini dei fenomeni climatici (PDF 380 KByte)

3. La scienza nel cassetto (PDF 380 KByte)

4. Risolto l’enigma delle correnti oceaniche (PDF 520 KByte)

5. Le correnti oceaniche secondarie (PDF 470 KByte)

6. Comprensori Climatici (PDF 220 KByte)

7. I fattori di disturbo del clima (PDF 225 KByte)

8. La genesi di deserti e uragani (PDF 400 KByte)

9. I disastri del Clima  (PDF 660 KByte)

10. Il controllo del clima: un’utopia? Forse no.  (PDF 460 KByte)

11. Effetto Serra farà rima con guerra?  (PDF 300 KByte)

12. Il clima e l’uomo: ciò che i libri di Storia non dicono  (PDF 480 KByte)

 

Uragani, tifoni e affini: quando l’atmosfera dà i numeri

UraganoIl fenomeno che genera le grandi perturbazioni atmosferiche è costituito dal differenziale termico fra una determinata zona calda della superfice del pianeta e tutta la vasta area fresca circostante.
Poiché, infatti, la temperatura della superfice del pianeta influisce in modo determinante sulla temperatura dell’aria soprastante, questa si riscalda o si raffredda a seconda della temperatura del suolo.
In tal modo, l’aria a contatto con una superfice calda si riscalda a sua volta e ciò ne provoca la dilatazione rendendola più leggera(1) di quella fresca che la circonda.
A sua volta, quest’ultima, gravata dal proprio peso, si insinua facilmente sotto l’aria calda sollevandola dal suolo e dando così inizio al movimento ascensionale che è all’origine delle perturbazioni atmosferiche.
Perché l’innalzamento iniziale possa trasformarsi in un mulinello e poi in una tromba d’aria, che potenziandosi può trasformarsi in un tornado e infine in un uragano vero e proprio, occorre che l’aria interessata alle fasi iniziali del fenomeno contenga una certa scorta di energia termica…  scorta costituita dal calore contenuto nell’umidità dell’aria(2).
Ora, è bene ricordare che il contenuto di umidità nell’aria è direttamente proporzionale alla pressione ed alla temperatura dell’aria stessa.
Quando, infatti, l’aria si riscalda, aumenta la sua capacità di assorbire umidità dando così l’impressione che l’atmosfera sia limpida anche quando non è asciutta, mentre quando si raffredda, tale capacità diminuisce determinando la condensa del vapore, il quale fa apparire l’atmosfera di un biancore opaco.
A contatto col suolo freddo, poi, la condensa dà origine alla nebbia, mentre, in quota, essa origina le nuvole da cui poi si genera la pioggia.
Analoga sequenza si verifica con le variazioni di pressione dell’aria: se la pressione aumenta, infatti, aumenta anche la capacità dell’aria di assorbire umidità; al contrario, con la diminuzione della pressione, comincia la fase di condensa dell’umidità fino a giungere alla formazione della pioggia.
Benché generate entrambe dall’influenza della superfice del pianeta e benché in apparenza simili, fra le due sequenze esiste una differenza sostanziale: quando il contatto col suolo raffredda la bassa atmosfera, l’aria sottrae calore all’umidità, che così, priva di energia, è indotta a condensare rimanendo inerte, come nel caso della nebbia; al contrario, benché anche la diminuzione della pressione provochi la condensa dell’umidità, anziché diminuire, la temperatura dell’aria tende ad aumentare, e questo perché essa riceve il calore rilasciato dal vapore acqueo in addensamento: in tal modo, aumentando la sua temperatura, l’aria si dilata ulteriormente divenendo via via più leggera e ciò, oltre a favorire il suo innalzamento di quota, produce ulteriore rilascio di calore da parte dell’umidità residua a sua volta in fase di condensa…
Questo processo continua fino a che non si esaurisce l’energia termica fornita dalla condensa del vapore, energia tuttavia, che alla corrente ascensionale può essere fornita in quantità quasi illimitate da particolari condizioni presenti al suolo.
Quando, infatti, il moto ascensionale dell’aria è innescato dall’alta temperatura di una massa d’acqua molto profonda, il rimescolamento superficiale di questa, prodotto dalla perturbazione atmosferica, non porta a galla acqua fredda che potrebbe bloccare sul nascere la formazione del vortice(3) atmosferico, ma porta a galla altra acqua calda, che fornisce ulteriore energia termica all’intero processo(4).
« Bene – dirà qualcuno – ma come si spiega, allora, il fatto che gli uragani si abbattono ogni anno sui Caraibi e sui Paesi circostanti e non lungo la rotta della calda Corrente Brasiliana, benché questa, derivando dal ramo sud delle Corrente Equatoriale Atlantica, sia la gemella di quella che si insinua nel Golfo del Messico? »
La domanda è importante e merita una risposta precisa ed esauriente.
Come abbiamo visto all’inizio, il fattore che provoca le perturbazioni atmosferiche è il differenziale termico fra una determinata zona calda della superfice del pianeta e tutta la vasta area fresca circostante.
Ciò, ad esempio, è quanto avviene nel Nord Atlantico lungo il percorso della calda Corrente del Golfo, dove però ben difficilmente le perturbazioni si trasformano in uragani, e questo perché, pur se elevato, il differenziale termico fra superfice calda della corrente e quella fresca dell’oceano circostante non raggiunge mai il livello critico.
Tale livello non viene raggiunto nemmeno lungo le coste del Brasile, e questo perché in quell’area la superfice dell’oceano è fortemente riscaldata dal Sole tropicale.
Al largo del Mare dei Caraibi, invece, tale livello critico è superato per il sopraggiungere da Nord-Est delle fresche acque portate in zona della Corrente delle Canarie, acque, la cui temperatura contrasta in modo netto con quella del ramo Nord della Corrente Equatoriale Atlantica che si inoltra nei Caraibi.


  1. Il minore peso dell’aria calda è dovuta al fatto che, essendo essa meno densa rispetto all’aria fredda, a parità di volume essa contiene un numero nettamente inferiore di molecole, e dunque essa pesa meno.
  2. Come è noto, l’umidità dell’aria è costituita da vapore acqueo e questo è generato dal calore del Sole che, riscaldando l’acqua, la fa evaporare.
  3. Riguardo all’invorticamento delle masse d’aria spinte verso l’alto, la spiegazione del fenomeno richiederebbe uno spazio esorbitante per questa breve esposizione, cosicché, non essendo tale argomento essenziale per l’esposizione in corso, se ne rimanda la trattazione ad altro articolo.
  4. Ed è tale circostanza che spiega il verificarsi degli uragani solo lungo il corso terminale di alcune correnti oceaniche calde.

I maremoti

considerazioni sulle teorie correnti e sulla realtà delle cose

[rielaborazione del materiale per un articolo del 31-1-2005]

CHIACCHERE AL CAPEZZALE DEL PIANETA

Effetti prodotti dallo tsunami dell'Alaska (1964) a Kodiak (Alaska). Le barche nella foto sono state trasportate in citta`dalle onde, a qualche decina di metri dalla costa. (Foto tratta da NOOA Photo Library  in http://www.photolib.noaa.gov/historic/c&gs/theb0964.htm).

Effetti prodotti dallo tsunami dell’Alaska (1964) a Kodiak (Alaska). Le barche nella foto sono state trasportate in citta`dalle onde, a qualche decina di metri dalla costa. (Foto tratta da NOOA Photo Library in http://www.photolib.noaa.gov/historic/c&gs/theb0964.htm).

Quando avviene una grande catastrofe, subito si scatena la ridda delle congetture scientifiche tese a spiegare al Volgo le cause e i meccanismi degli spaventosi fenomeni, e puntualmente, già poche ore dopo il fortissimo terremoto del 26 dicembre 2004 che, generando un devastante tsunami, travolse il Sud-est asiatico provocando danni immensi e centinaia di migliaia di vittime, da parte di numerosi Scienziati e addirittura di prestigiosi Istituti scientifici internazionali cominciò la gara a chi indovinava la diagnosi.
Sembrava di sentire i medici al capezzale di Pinocchio morente, che dicevano tutto e il contrario di tutto: ipotesi sparate a caldo non per reale e ponderata convinzione ma, spesso, solo per potersi vantare, in vista di una eventuale conferma dai fatti, di averlo detto per primi!
Lungi però dal fare chiarezza sui fenomeni, quella gara aumentò la confusione nell’opinione pubblica e, quel che è peggio, anche negli addetti alla prevenzione delle calamità ed al soccorso delle popolazioni: e quanto ciò sia vero è confermato dalla indeterminatezza delle risoluzioni, a cui era giunta la conferenza internazionale tenutasi a Kobe sul tema, appunto, delle catastrofi naturali.
Più che dimostrare la competenza degli scienziati, l’evidente contradittorietà delle loro sparate mostrava una certa leggerezza nel comportamento e l’inadeguatezza della loro preparazione, ma non solo: il fatto, che si possa dire tutto e il contrario di tutto sulla base di una unica teoria scientifica accettata ormai universalmente, è la dimostrazione lampante, che quella teoria è quanto meno non idonea a fornire spiegazioni credibili e univoche sulle cause di cataclismi come quello del 26 dicembre 2004, e non solo di quello!
Formulata quale sintesi di varie ipotesi espresse per dare una spiegazione apparentemente razionale e realistica ai fenomeni della Deriva dei continenti e della Espansione dei fondi oceanici, quella teoria è fondata sulla presunta suddivisione della Crosta oceanica in innumerevoli particelle adagiate su altrettante cellule convettive in cui sarebbe frazionato il Mantello (l’immane strato magmatico sul quale galleggia la crosta terrestre) le quali, coi loro flussi verticali attivi e passivi, darebbero ragione dell’espansione dei fondi oceanici mediante la formazione di nuova crosta da un lato e della consunzione della crosta vecchia dall’altro, e di come, agendo come un nastro trasportatore sul quale sarebbero adagiati i continenti, questi verrebbero spostati in qua e in là sulla superfice del pianeta.
In pratica dunque, tutta questa costruzione teorica si fonda sulla presunzione, che il magma del Mantello salga e scenda nelle viscere della Terra come fa l’acqua che si scalda in una pentola posta sul fuoco, i cui moti convettivi sono evidenziati dal continuo saliscendi dei fagioli messi a cuocere.

UNA TEORIA CHE NON STA A GALLA…

Per quanto possa apparire suggestivo, però, il modello basato sull’esempio della pentola d’acqua messa a bollire non è realistico, poiché si riferisce al comportamento di un fluido semplice e stabile: l’acqua appunto, la quale, formata solo dalla forte unione di Ossigeno e Idrogeno, pur se esposta a forte calore non è soggetta a disgregazione.
Al contrario, essendo costituito da tutti gli elementi presenti sul nostro pianeta e dalle loro più svariate combinazioni (che ne rendono la composizione estremamente complessa) il magma che sale dalle viscere della Terra non è assolutamente stabile, cosicché, montando verso la superfice, subisce una profonda riorganizzazione interna a causa del rapidissimo calo della pressione ambientale e della temperatura, fattori che agiscono grazie ai diversissimi punti di fusione dei suoi componenti.
Per spiegarci meglio, ricordiamo che il magma fonde ad una temperatura di soli 8-900 gradi e che a 1.200° esso è fluido quasi come l’olio, mentre i suoi componenti fondono a temperature diversissime: come il ferro, che fonde a 1.500° e il platino che fonde a 1.775°, mentre altri suoi componenti pure molto pesanti fondono a temperature nettamente inferiori, come l’antimonio, che fonde a 630°, il piombo che fonde a 327°, lo stagno, che fonde a soli 232°, e come il mercurio, che addirittura è già fuso alla nostra temperatura ambiente.
Ebbene, fino a che il magma si trova a grandissima profondità ed è sottoposto a pressioni di migliaia di atmosfere, la sua densità è altissima e la sua temperatura si mantiene a livelli di molte migliaia di gradi, cosicché tutti i suoi componenti rimangono allo stato fluido.
Quando però, si presenta una profonda spaccatura nella Crosta terrestre (detta Spaccatura tettonica) che consente un’ampia via di fuga, come avviene nei vulcani lineari che costituiscono l’asse originario delle Dorsali oceaniche, la pressione ambientale all’interno del Mantello precipita rapidamente e ciò consente al magma di espandersi prepotentemente aumentando così in modo incontenibile il proprio volume.
Questo processo rende il magma sempre più fluido e instabile, facilitando così la mobilità dei suoi componenti anche a grande profondità, i quali sgusciano sempre più rapidamente verso la via di fuga facendo in tal modo diminuire sempre più estesamente la consistenza del Mantello (1).
Quest’ultimo, progressivamente depauperato ed oppresso dal proprio peso e da quello della soprastante Crosta oceanica, nonché dal peso dello spessore dell’oceano, avvia un processo di assestamento che avviene mediante la diminuzione del proprio volume, assestamento che provoca di conseguenza, nel soprastante fondo oceanico, una progressiva subsidenza (abbassamento), la quale, con l’estendersi del fenomeno della migrazione dei componenti del magma verso la via di fuga, si propaga lentamente dalle vicinanze della spaccatura tettonica fin verso l’estremità distale della particella, in prossimità della Fossa che segna in genere il limite fra la placca oceanica e quella continentale.
Secondo la teoria corrente più accreditata, detta Fossa costituirebbe l’imboccatura del varco, attraverso il quale la crosta oceanica vecchia sprofonderebbe nel Mantello, dando luogo, si dice, al cosidetto processo di Subduzione, e questo perché, affermano i sostenitori di tale teoria, raffreddandosi, il basalto della crosta oceanica si addenserebbe appesantendosi fino a perdere la capacità di galleggiare sul magma del Mantello.
Ebbene, sorvolando sulla reale trafila, che il magma subisce nella fase di risalita dalle viscere del Mantello alla superfice della crosta oceanica, fino al suo consolidamento in forma di basalto (trafila legata agli effetti dovuti alla diversità dei punti di fusione a cui abbiamo accennato), questa ipotesi si scontra con una serie di contraddizioni imbarazzanti, cosicché viene da chiedersi:
– Perché mai il basalto non torna ad immergersi nelle profondità del Mantello subito dopo essersi formato, subito dopo, cioè, che il magma che lo ha generato si è raffreddato e dunque addensato e appesantito al punto di perdere la capacità di galleggiamento?
– E perché mai, prima di dileguarsi nella cosidetta Fossa di Subduzione, ciascuna porzione di crosta basaltica rimane a galleggiare sul Mantello per decine di milioni di anni, fino a completare la traversata del fondo oceanico?
– E come potrebbe, la stessa sottile crosta basaltica (2), rimanere in immersione allo stato solido per milioni e milioni di anni pur se sottoposta a temperature di molte migliaia di gradi (3), tanto da riuscire, con la sua rigidità, a provocare ancora scosse sismiche ad oltre 700 (settecento) Km di profondità (4), come rivelano chiaramente i sismografi?»
Non potendo, la teoria in auge, dare risposte credibili a tali domande, torniamo alle vicende della crosta oceanica e vediamo che, all’estremità distale di una delle sue Particelle, dove la sottile crosta oceanica si addossa alla possente piattaforma continentale, la sua subsidenza al seguito dell’assestamento del mantello incontra serie difficoltà dovute al forte attrito fra i due diversi elementi (crosta oceanica e crosta continentale), attrito che ne impedisce il regolare andamento.
In tal modo, fra le due diverse placche crostali (oceanica e continentale) si formano delle fortissime tensioni, che fanno inarcare la sottile crosta oceanica (5) tenendone incastrato il margine contro il bordo della piattaforma continentale, bordo che a sua volta tende ad abbassarsi sotto il peso dell’immane fardello che si trova a reggere suo malgrado (6).
Quando, infine, lo sforzo supera la resistenza dei materiali lungo la linea di contatto fra le due placche, avviene improvviso l’assestamento: il margine della placca oceanica collassa rapidamente per adagiarsi completamente sul sottostante Mantello mentre, alleggerito del peso, il margine continentale si rialza grazie alla propria spinta di galleggiamento… E avviene la catastrofe!
E tutto questo è proprio quanto avvenne il 26 dicembre 2004 al largo dell’Indonesia, dove risulta che il margine della placca continentale si sia rialzato di una ventina di metri rispetto alla quota iniziale.

MA… IL MAREMOTO?

Anche riguardo all’origine dei maremoti ci sarebbe da ridire, perché le spiegazioni offerte dagli addetti ai lavori non quadrano con la robusta consistenza della crosta continentale né con la quantità di acqua movimentata da un maremoto delle dimensioni di quello che colpi le coste dell’oceano Indiano il 26 dicembre 2004.
Innanzitutto, va detto che i veri maremoti (quelli cioè di grandi proporzioni, in grado di seminare morte e distruzione sulle coste) sono generati esclusivamente dai terremoti sussultori, i quali, pur non producendo in genere gravi danni diretti, provocano consistenti variazioni nella profondità dell’oceano a livello regionale.

Abbassamento di un margine di faglia di oltre quattro metri in seguito ad un terremoto sussultorio in Nevada (da: La Terra, di A. Beiser. Ed Life-Epoca 1962)

Abbassamento di un margine di faglia di oltre quattro metri in seguito ad un terremoto sussultorio in Nevada (da: La Terra, di A. Beiser. Ed Life-Epoca 1962)

E ciò contrariamente a quanto avviene con i terremoti ondulatori, i quali sono direttamente distruttivi ma senza produrre in genere variazioni nel livello del fondo marino.

Evidente dislocamento di porzioni di territorio causato dal terremoto ondulatorio di S. Francisco del 1906 (da La Terra id.c.s)

Evidente dislocamento di porzioni di territorio causato dal terremoto ondulatorio di S. Francisco del 1906 (da La Terra id.c.s)

Secondo gli studiosi, il maremoto sarebbe provocato dallo spostamento verticale di una enorme quantità di acqua prodotto dallo scatto verso l’alto, che la placca continentale compie nel momento in cui si riprende dalla deformazione elastica causatale dall’attrito con la crosta oceanica in fase di subduzione, e come esempio propongono l’immagine del trampolino, che quando si libera dal peso del tuffatore scatta verso l’alto per riacquistare la posizione orizzontale.
A questo proposito, c’è da osservare innanzitutto che, se la crosta terrestre fosse realmente elastica come proposto dall’esempio del trampolino, essa non presenterebbe la miriade di faglie, crepe e fratture evidenti nella sua struttura anche a livelli quasi millimetrici: per rendersene conto, infatti, basta osservare quanto fittamente sono frammentate le rocce delle nostre montagne.
Il 26 dicembre 2004, dunque, il margine indonesiano della placca continentale non si risollevò per la sua presunta elasticità, ma per la spinta al galleggiamento ricevuta dalla sua parte immersa nel magma del Mantello quando si liberò del peso del margine della crosta oceanica in assestamento: scrollatosi di dosso l’immane fardello, il margine indonesiano della placca continentale si sollevò per ritornare ad una posizione di equilibrio “idrostatico”.
In secondo luogo, scivolando ipoteticamete dal trampolino dopo essere stata sollevata di qualche decina di metri sopra il livello del mare (7) , l’acqua non avrebbe assolutamente potuto raggiungere la velocità vertiginosa con cui le onde di maremoto attraversano gli oceani (8); inoltre, per quanto fosse grande il volume delle acque spostate dello scatto del trampolino, esso sarebbe stato in ogni caso enormemente inferiore al volume delle acque coinvolto nel maremoto indonesiano, cosicché, disperdendosi nell’oceano in tutte direzioni, tale volume si sarebbe talmente diluito da raggiungere le coste con onde praticamente innocue (9).
Infine, a contraddire l’ipotesi del trampolino c’è il fenomeno del ritiro del mare dalle linee di costa, fenomeno che costituisce un preavviso importante per le popolazioni delle regioni costiere, ma che non può essere provocato dall’innalzamento delle acque da parte dal presunto scatto del trampolino.
Il 26 dicembre 2004, invece, il ritiro del mare avvenne su tutte le coste dell’oceano Indiano e ciò consentì ad un ragazzino inglese (evidentemente preparato nella materia) di dare l’allarme tsunami sulla spiaggia tailandese in cui era in vacanza con la famiglia, allarme che consentì di salvare in zona innumerevoli vite umane.
E dunque, come si spiega questo fenomeno?
Ebbene, il ritiro del mare dalle linee di costa si spiega in maniera inoppugnabile con l’improvviso abbassamento del fondo marino, abbassamento che, provocando un forte aumento dello spazio disponibile, provoca il violento risucchio in zona delle acque oceaniche circostanti, producendo in tal modo un abbassamento di livello in fasce sempre più vaste dell’oceano, le quali a loro volta attirano masse crescenti d’acqua provenienti dalle aree più lontane e così via fino a giungere ai margini dell’oceano, dove si verifica così il ritiro delle acque dalle linee di spiaggia: esattamente come avvenne in quel 26 dicembre.
L’entità del volume d’acqua messo in moto in tal modo è enormemente superiore al volume reso disponibile dall’abbassamento del fondo oceanico, cosicché l’acqua proveniente dal largo non solo colma la depressione nella superfice oceanica ma, spinta dallo slancio (forza d’inerzia) continua ad affluire in zona producendo un enorme accumulo che subito, sotto l’azione della forza di gravità, si squaglia sparando in tutte le direzioni l’acqua in eccesso, dando così origine all’onda anomala che, sfrecciando ad altissima velocità ed ergendosi per decine di metri sui bassi fondali, si precipita sulle coste seminando distruzione e morte.

UN FENOMENO APPARENTEMENTE PARADOSSALE

«Ma… – viene da chiedersi – che ne è stato dell’innalzamento di 20 metri del margine continentale sui fondali indonesiani?»
Ebbene, lungi dall’essere una concausa del maremoto, quell’innalzamento fu provvidenziale, poiché consentì di diminuire la portata del maremoto.
Agli occhi degli esperti, tale affermazione potrebbe sembrare paradossale, e invece è sostenuta da una ragione più che valida.
Infatti, l’innalzamento del margine continentale indonesiano (dovuto non al rimbalzo del trampolino ma alla sua forza di galleggiamento sul magma del Mantello) ha occupato in parte il volume del “vuoto” prodotto dal repentino abbassamento del fondale oceanico, vuoto che, così ridotto, ha richiamato in zona una quantità di acqua enormemente minore rispetto a quella, che sarebbe stata necessaria a colmarlo se non si fosse verificato il provvidenziale innalzamento del margine continentale!
In tal modo, pur se terribilmente spaventosa, l’entità dei disastri prodotti dal maremoto del 26 dicembre 2004 fu notevolmente inferiore a quanto avrebbe potuto essere, se la spinta di galleggiamento non avesse riportato a livello il margine della placca continentale indonesiana.

NOTE

1) Per comprendere meglio il fenomeno, ricordiamo ciò che avviene in una bottiglia di spumante aperta maldestramente; l’improvviso calo della pressione consente ai gas compressi di espandersi facen-do aumentare enormemente il volume del vino, che così sgorga con violenza dalla bottiglia.

2) La crosta terrestre al disotto degli oceani ha uno spessore che si aggira intorno ai dieci o dodici chilometri.

3) Non dimentichiamo che il basalto torna a fondere a meno di mille gradi.

4) Considerando che la distanza fra la Dorsale Atlantica e le coste continentali si aggira sui 3.000 Km e che in questo oceano non esi-stono Fosse di subduzione che consentano alla crosta di immerger-si nelle profondità del pianeta, appare ovvio che la parte più antica della crosta atlantica risalga ai primi tempi della formazione dell’o-ceano, cosicché i 3.000 Km anzidetti si sarebbero formati nei 65 milioni di anni di vita dell’oceano. Pertanto, considerando che 3.000 Km : 700 Km dà 4,3, dividendo 65 milioni di anni per 4,3 si ottiene il tempo di formazione di 700 Km di crosta, tempo che risulta pari ad oltre 15milioni di anni, il quale dunque corrisponde a quello duran-te il quale, secondo gli studiosi, la crosta immersa rimarrebbe allo stato solido benché sottoposta a temperature di molte migliaia di gradi… La cosa non è assolutamente credibile!

5) L’inarcamento della crosta oceanica è reso possibile dalla sotti-liezza della crosta stessa (pari a circa 10 Km) ed all’indebolimento della sua struttura dovuto alla miriade di “valli” trasversali che ne riducono ulteriormente lo spessore, valli che corrispondono ad ogni fase di fine ed inizio dei processi di accrescimento della crosta (si veda in proposito l’opuscolo “I CICLI VITALI DELLA TERRA”)

6) Questo fenomeno si manifesta con maggiore evidenza quando la placca continentale ha uno sviluppo trasversale ridotto, proprio come avviene per una chiatta galleggiante sull’acqua, la quale, oltre al proprio carico normale, deve sopportare anche il peso di qualche ingombro agganciato fuori bordo ad una sua fiancata

7) Ricordiamo che, secondo gli Scienziati, il margine della placca indonesiana si sarebbe innalzato di venti rispetto al livello precedente.

8) Si consideri, a questo proposito, la relativamente bassa velocità a cui scorre l’acqua dei fiumi appena precipitata dalle cascate, anche le più imponenti, velocità che non si avvicina minimamente a quella delle onde di maremoto.

9) Anche in occasione di terremoti sottomarini recenti, l’onda ano-mala è giunta sulle spiagge senza alcun preavviso e con dimensioni talmente ridotte da non recare alcun danno.