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Alla ricerca dell’anello mancante

GIANNI BASSI

ALLA RICERCA DELL’ANELLO MANCANTE

[da Il Giornale di Vicenza in data 29 marzo 1990 e dal Bollettino FAAV (organo interno della Federazione delle Associazioni Archeologiche Venete) del 1993]
uomo_gorilla

UOMO                      GORILLA
Si osservi la forma espansa del bacino umano rispetto a quella allungata del gorilla. Si noti inoltre la linea di carico che attraversa tutte e tre le articolazioni delle gambe dell’uomo conferendo loro una grande resistenza ai carichi, mentre nel gorilla detta linea è spezzata al ginocchio, cosa che, sotto un forte carico o una sollecitazione eccessiva, potrebbe causare il cedimento verso l’esterno dell’articolazione.

Quando nei sedimenti pliocenici dell’Etiopia furono rinvenuti i resti fo     ssili dello scheletro, che poi sarebbe divenuto universalmente noto col nome di Lucy, nessuno dei ricercatori si rese subito conto che si trattava di ossa umane.
Fu il capo della spedizione, Donald Johanson, che se ne avvide quando ricompose le ossa del ginocchi: la tibia ed il femore non erano allineati ma deviavano l’uno dalla linea dell’altro esattamente come avviene nelle nostre ginocchia, in cui sono allineate non le ossa ma le loro articolazioni, cosa che consente a noi di vivere in posizione eretta e di portare pesi notevoli senza danno per il nostro scheletro.
Nelle scimmie, invece, anche le più evolute come scimpanzè e gorilla, ciò non avviene: infatti, nei loro arti inferiori sono le ossa ad essere allineate, per cui l’articolazione del ginocchio si trova fuori dalla linea cavigliaanca, e ciò rende le gambe delle scimmie non adatte alla stazione eretta e tanto meno adatte a sopportare grossi pesi

Tale diversità nella struttura degli arti inferiori fra uomo e scimmie ha la sua ragione d’essere in quanto il primo è un “bipede” mentre le seconde sono “quadrumani” più o meno evolute.
Queste due definizioni, “bipede” e “quadrumane”, sono essenziali per il nostro discorso perché definiscono le modalità del rapporto fra l’essere vivente e l’ambiente in cui esso vive. E poiché tanto gli animali superiori quanto l’uomo sono a contatto con l’ambiente attraverso le estremità degli arti, è dallo studio di tali estremità che si dovrebbe riuscire a comprendere in quale modo l’Uomo si è differenziato dalle altre creature.
Secondo una teoria ormai universalmente accettata, l’uomo si sarebbe differenziato dagli altri primati “discendendo dagli alberi” e andando a vivere nella savana, le cui alte erbe lo avrebbero costretto ad assumere la stazione eretta per meglio controllare le mosse delle sue prede e quelle dei grandi carnivori, che costituivano per lui un pericolo mortale: in pratica dunque, chi razzolava a terra finiva divorato più facilmente di chi invece si alzava in piedi, cosicché quest’ultimo aveva più probabilità di potersi riprodurre.
Ma le cose andarono veramente così?
Andiamo con ordine e vediamo innanzitutto come le variazioni di ambiente hanno modificato gli arti inferiori dei primati.

proscimmia

Nei lemuri, arboricoli specializzati, il pollice è assai breve, l’indice è atrofizzato mentre il dito più robusto è l’anulare, perché garantisce la presa anche sui rami di maggiore spessore.

Tralasciando le proscimmie, le cui mani hanno subito fortissime modifiche per facilitare la presa sui rami degli alberi su cui vivono, osserviamo per prime le scimmie antropomorfe che, vivendo nella foresta, non hanno mai perso le loro abitudini prevalentemente arboricole (quanto meno per il pernottamento), come i macachi, gli oranghi, i gorilla e gli scimpanzé: ebbene, questi primati hanno alle estremità degli arti inferiori delle vere e proprie mani, che si differenziano da quelle anteriori solo per un minore sviluppo del pollice (trattandosi di mani, benché inferiori, diciamo pollice e non alluce) e per un lieve allungamento dell’osso del tarso (quello che nel nostro piede è diventato il tallone).

gorillino

Gorilla adulto – cucciolo
Conservando abitudini arboricole (esso infatti dorme sugli alberi) all’estremità degli arti inferiori il gorilla presenta ancora la struttura della mano.

Tale mano posteriore consente alle scimmie antropomorfe una presa perfetta sui rami degli alberi, loro naturale ambiente di vita.

Un altro gruppo di primati è costituito dalle cosidette scimmie cinocefale, i cui più noti rappresentanti sono i babbuini.
Tali scimmie sono scese dagli alberi almeno quando l’uomo, tant’è vero che hanno gli arti posteriori modificati al punto da assomigliare parecchio ai nostri piedi, con la differenza però, che l’alluce è ancora apponibile alle altre dita, è situato molto all’indietro ed è di dimensioni alquanto più ridotte del nostro.

 

babbuino

Piede di babbuino

Ebbene, le scimmie cinocefale, che di giorno vivono abitualmente a terra nella savana, non hanno mai sentito il bisogno di assumere la stazione eretta e tuttavia ciò non ha compromesso la loro sopravvivenza.

Per trovare la fase successiva della trasformazione della “mano posteriore” in “piede”, bisogna abbandonare le scimmie ed osservare i roditori: questi, mentre agli arti anteriori hanno conservato delle vere manine a cinque dita (un po’ tozze invero ma perfettamente funzionali), agli arti posteriori hanno dei piedi veri e propri che consentono loro di assumere la posizione eretta rendendo libere le mani per maneggiare il cibo e per fare dei lavori (ad esempio, recuperare uno spago a cui è appeso del cibo).
I piedi dei roditori, però, hanno solo quattro dita poiché l’alluce, non più usato da tempo immemorabile, si è via via atrofizzato ed è scomparso (il fenomeno è meglio osservabile nei cani, alcuni dei quali, spece i bastardini, presentano a volte sugli arti posteriori il cosidetto “sperone”, che altro non è se non il rimasuglio dell’alluce).

ladruncolo

Il ladruncolo avrebbe potuto portare la preda stretta al petto, avanzando col passo della papera

Come mai, allora, il piede umano non solo presenta cinque dita, ma l’alluce, lungi dal tendere a scomparire, è invece il dito più robusto?
Torniamo ora indietro nel tempo fino al nostro più lontano progenitore, che poteva avere forse le proporzioni di un grosso topo campagnolo, ed immaginiamo di vederlo accovacciato sulle zampi posteriori intento ad armeggiare con un uovo appena rubato da un nido d’anitra presso un corso d’acqua: non sentendosi sicuro in quella posizione che lo espone all’occhio dei predatori, ad un certo punto quell’animaletto decide di andarsene ma non vuole rinunciare alla sua preda.
Domanda: non potendo tenere l’uovo con i denti, come potrà trasportarlo?
Sono stati osservati dei topi che, posti di fronte allo stesso problema, hanno abbracciato l’uovo e si sono fatti trascinare via per la coda da qualche compagno… vogliamo credere che quel nostro lontanissimo antenato fosse meno furbo di un topo?
Se la risposta è”No!”, dobbiamo credere che lui le uova rubate dai nidi potesse trasportarle anche stringendole a sè con le manine.
Ebbene, la brevità degli arti e l’ingombro della pancetta avrebbero costretto il ladruncolo a camminare con le gambe larghe ed i piedi divaricati nel caratteristico “passo della papera” tipico delle nostre mamme in dolce attesa, passo che lo avrebbe fatto ciondolare in qua e in là per spostare il peso del corpo da un piede all’altro.
Le oscillazioni laterali del corpo, però, avrebbero impresso ai piedi di quel nostro antenato una spinta verso l’esterno, impegnandolo in un continuo sforzo per contrastare lo scivolamento laterale, esattamente come fanno gli sciatori ai nostri giorni quando procedono in salita col passo detto a spina di pesce.

Questo modo di incedere si basa sulla concentrazione del peso del corpo lungo il profilo interno del piede, che così viene a sopportare gran parte dello sforzo.
E fu così che il dito corrispondente a tale zona dell’arto fu costretto ad irrobustirsi e a divenire, nel corso delle generazioni, il dito più grosso, il nostro alluce!

piede

Salvo malformazioni congenite o mutilazioni accidentali, il piede umano conserva tutte e cinque le dita e, contrariamente a quanto avviene in tutti gli altri primati, il dito più robusto è l’alluce, il dito più interno.

Dunque, dal momento che il piede umano non solo ha cinque dita, ma che il più sviluppato di queste è proprio il dito interno, sembrerebbe sfumare la validità della teoria, che vede l’uomo quale successore di una scimmia scesa dagli alberi poiché, se così fosse, molto probabilmente oggi noi dovremmo avere i piedi con sole quattro dita e prive dell’alluce.

Il Fatto, invece, che i nostri piedi conservino tutte e cinque le dita, consente di sostenere che l’uomo discende da un antenato comune a tutti i primati (e forse chissà a quali altri animali), il quale era onnivoro (ma non roditore), aveva un corpo tozzo e gli arti brevi, era quasi certamente di piccole dimensioni e non era una scimmia!
Dunque, quel nostro piccolo antenato sarebbe precedente agli australopitechi di parecchi milioni di anni… e durante tutto quel tempo, alcuni suoi discendenti adattarono i propri arti alla vita arboricola o semiarboricola (mantenendo dunque in funzione le mani posteriori), mentre qualche altro ebbe tutto il tempo per adattarsi alla stazione eretta.

abitat

L’albero ed il terreno costituiscono l’ambiente di vita che ha indotto le modifiche da adattamento nella struttura degli arti dei primati, facendo di questi creature “semiarboricole” sopratutto di notte, come le scimmie antropomorfe (ambiente 1) od “eminentemente arboricole” come le proscimmie (ambiente 2b) oppure “prevalentemente terragnole” (come le scimmie cinocefale (ambienti 1 e 2a). Fra i primati, solamente l’Uomo è stato sempre terragnalo (ambiente 3)

Tale adattamento portò poi alla specializzazione, la quale produsse l’allungamento delle gambe e la modifica delle ossa del bacino al fine di fornire robusti ancoraggi ai glutei, muscoli che si andavano rafforzando e sviluppando per consentire ai nostri antichi progenitori di lanciarsi in folli corse sia per sottrarsi ai pericoli che per catturare le prede.
E furono proprio tali corse, secondo me, che produssero l’inarcamento del nostro piede e delle falangi delle sue dita, e ciò per favorire la presa sul terreno proprio come fanno i chiodi sotto le scarpe degli atleti: dunque, a produrre detto inarcamento non fu il faticoso incedere di creature scimmiesche in un improbabile ambiente perennemente fangoso, come ipotizzato da altri.
È curioso, a questo punto, osservare come, pur di fronte ai resti eloquenti di bacini inequivocabilmente umani, alcuni studiosi si ostinino a produrre ricostruzioni grafiche di ominidi caratterizzati da un fondo schiena atrofico simile a quello delle scimmie, quando le sue forme reali indicano che doveva invece essere dotato di poderose masse muscolari, che sole, nel corso di milioni di anni, possono avere modificato il bacino umano fino a renderlo inconfondibilmente unico.
Quanto al maggior grado di somiglianza fra i codici genetici dell’uomo e dello scimpanzè rispetto a quello fra scimpanzè ed orango, ne sappiamo ancora troppo poco per giungere a facili conclusioni; non dobbiamo dimenticare, infatti che, nei trapianti di valvole cardiache sull’uomo, gli organi prelevati dai maiali hanno dato risultati migliori di quelli prelevati dagli scimpanzè e, non ostante ciò, a nessuno passa per la mente di ipotizzare una discendenza dell’uomo da un antenato comune coi maiali!
Vorrei infine ribadire che l’evoluzione di una specie si manifesta precocemente e marcatamente in quelle parti dell’organismo, che sono a contatto diretto con l’ambiente e in funzione delle modalità con cui tale contatto avviene:
– così, per la sua tecnica di caccia, il ghepardo (un felino) ha gli arti adattati alla corsa simili quelli dei canidi;
– così, per l’ambiente prevalentemente arboricolo in cui vivono, le proscimmie tendono ad eliminare le dita indici ed a sviluppare maggiormente gli anulari che consentono di impugnare rami di diametro maggiore;
– così alcuni roditori, sedendo abitualmente sulle zampette posteriori trasformate in veri e propri piedi, hanno potuto ottenere la libera disponibilità delle zampe anteriori costituite da vere e proprie manine, nell’uso delle quali alcuni di essi, come certi topi, hanno raggiunto un’abilità sorprendente, il che denota una intelligenza preoccupante in animali tanto pericolosi per la salute dell’uomo;
– così il nostro progenitore, preso gusto all’uso delle mani, uso che è alla base e non la conseguenza dello sviluppo della nostra intelligenza, si ingegnò fino ad inventare il primo e più elementare modo di camminare, il passo della papera, che del resto è quello che adottano ancora i nostri bambini quando fanno i primi passi.

Le specie: c’è evoluzione ed evoluzione

   GIANNI BASSI

LE SPECIE: C’È EVOLUZIONE ED EVOLUZIONE

da Il Giornale di Vicenza in data 23 agosto 1990
evoluzione

Le infinite forme dei viventi non cessano mai di stupire

Riguardo all’origine delle specie viventi, superata ormai totalmente la teoria creazionista, l’interesse ed il consenso per la teoria evoluzionista si è talmente dilatato da manifestare già da tempo i segni di profonde incrinature interne tendenti a suddividerla in varie correnti di pensiero.
La principale di tali correnti, cioè quella che riscuote il consenso della stragrande maggioranza dell’opinione pubblica, è la corrente che definirei selezionista, in quanto tende a spiegare tutti i fenomeni relativi all’evoluzione delle specie con la selezione naturale, cioè con quel processo che tende ad eliminare gli esseri più deboli, meno duttili, meno rampanti ed a favorire i più forti, i più opportunisti, i più aggressivi.
La seconda corrente ha molto meno seguito (questo però è forse più avveduto) e potrebbe essere definita programmista, in quanto tende a considerare l’evoluzione delle specie non come mera conseguenza di un meccanismo selettivo cieco ma come realizzazione graduale di un progetto, che si avvale anche della selezione naturale.
È fuori dubbio che la selezione naturale abbia una funzione fondamentale nel processo evolutivo delle specie, funzione che consiste nell’escludere dal ciclo riproduttivo gli individui o addirittura le specie meno adatte ad affrontare le asperità della vita, tuttavia, bisogna tener presente che esistono due forme di evoluzione: una, che non modifica l’efficenza delle difese organiche, ed una, invece, che altera tali difese in quanto provoca una mutazione dei tessuti.

Ad esempio, il forte aumento di statura riscontrabile nell’ultima nostra generazione, non avendo provocato alterazioni nella qualità dei tessuti e quindi non avendo intaccato le difese organiche, costituisce una forma di mutazione, che in passato sarebbe stata certamente vantaggiosa in campo bellico favorendo, con la maggiore prestanza fisica, gli individui mutanti a scapito dei mingherlini (non dimentichiamoci che , per legge, nell’antica Sparta le donne potevano tradire il marito purché l’amante fosse più prestante del coniuge).

appendice

L’appendice nasce dalla parte iniziale dell’intestino crasso (colon), il quale non solo costituisce il serbatoio di transito preposto al recupero dei liquidi (acqua) dalle feci ma con queste ospita anche la miriade di micro-organismi costituenti la flora batterica intestinale.
(dis. da Tavole di Anatomia umana, ed Giunti-Marzocco)

Altrettanto non si può dire, invece, per certe mutazioni, come ad esempio la formazione di nuovi organi, le quali, durante il processo di radicale modifica dei tessuti, per milioni di anni hanno esposto i mutanti a infezioni e setticemie, un po’ come succede per le infezioni all’appendice, cioè di quella sottile diramazione situata alla base dell’intestino crasso, che a volte si infiamma e si infetta producendo nell’uomo l’appendicite, malattia che, se non curata, piò portare alla morte.

Su tale pericolosa presenza nel nostro organismo esistono pareri discordi: c’è chi dice che l’appendice è un organo in via di formazione (il quale perciò può essere causa di malattia non avendo ancora raggiunto lo stadio di funzionalità), e c’è chi dice che essa è un organo che si sta atrofizzando avendo perso la sua utilità (in questo caso, però, la pericolosità di tale organo sarebbe doppiamente fonte di guai, poiché gli inconvenienti che procura ora all’umanità dovrebbe averli prodotti anche nella fase di formazione).
In entrambi i casi, comunque, la presenza di questo ex o futuro organo costituisce un pericolo costante, quindi avrebbe dovuto essere cancellato sul nascere dal patrimonio genetico dell’uomo.

pancreas

Situato a ridosso del duodeno, il pancreas è collegato allo stesso attraverso i dotti di Santorini e di Wirsung.
(dis. da Atlante di anatomia umana, dell’Istituto Geografico del Agostini Novara)

Lo stesso discorso vale per qualsiasi altro organo, come il pancreas, ad esempio, che si è formato da un diverticolo del duodeno, quindi nel primissimo tratto dell’intestino tenue, dove il bolo appena im-bevuto di acidi gastrici presenta ancora un forte contenuto di batteri vitali e potenzialmente patogeni (pensiamo al vibrione del colera, ad esempio, che supera agevolmente la barriera chimica costituita dai succhi gastrici secreti dalla mucosa dello stomaco).
Durante i milioni di anni impiegati dal diverticolo duodenale per modificare le proprie cellule e per organizzarle nel modo estremamente complesso in cui si presentano oggi all’interno del pancreas, detti batteri sono sicuramente stati una seria fonte di guai, i quali hanno prodotto una selezione che, anziché accelerare l’evoluzione, l’hanno sicuramente rallentata e ciò, essendo gli antenati dei mammiferi comparsi già nel periodo Triassico (come apparirebbe da recenti scoperte paleontologiche), potrebbe forse spiegare come essi abbiano dovuto attendere il declino dei dinosauri per espandersi e conquistare la Terra.
A questo punto, qualcuno potrebbe obiettare che anche i grandi rettili avrebbero sopportare la medesima trafila selettiva, eppure essi hanno conquistato la Terra 200 milioni di anni prima dell’esplosione demografica dei mammiferi e l’hanno poi tenuta in loro potere per ben 180 milioni di anni! Come si spiegherebbe questa contraddizione?
La risposta, forse, è più semplice di quanto non credano i molti studiosi che si sono posti la stessa domanda: i rettili differiscono dai mammiferi per non avere il sangue caldo e quindi per non avere una temperatura corporea costante, ed è proprio questa caratteristica che, durante i periodi in cui la temperatura corporea del rettile è bassa (ad esempio di notte) rallenta o blocca la virulenza dei batteri patogeni, mentre le difese corporee del rettile, che agiscono chimicamente, continuano quasi indisturbate la loro azione bonificatrice.
Questo fenomeno renderebbe i rettili molto più resistenti alle infezioni batteriche rispetto ai mammiferi, i quali, con la loro temperatura costante, forniscono invece ai batteri un ambiente di proliferazione ideale.
Ciò, unito alla concorrenza in campo alimentare costituita dall’onnipresenza dei rettili (i quali, nell’era mesozoica, si erano talmente diffusi e differenziati da occupare praticamente tutte le nicchie ecologiche) ha limitato enormemente il numero dei mammiferi rallentandone in modo drastico, e a volte totale, l’evoluzione.

Non ostante ciò, tuttavia, la Natura ha seguito il suo corso realizzando il suo grandioso progetto: pur se fra mille difficoltà ed infortuni, gli organismi si sono modificati adattandosi sempre meglio alle caratteristiche dell’ambiente, sono diventati sempre più complessi e più versatili fino a raggiungere i vertici toccati da quell’animaletto, che è situato all’origine della specie umana.
Arrivato ad uno stadio di sviluppo pressoché completo, a quel nostro antichissimo progenitore non rimanevano che due scelte: continuare nell’evoluzione per conquistare mediante l’adattamento le varie nicchie ecologiche, cadendo così nella trappola sen

escherichia

Fra gli innumerevoli batteri abitualmente presenti nel colon va annoverata anche l’escherichia coli, un batterio che, se trasferito accidentalmente in altre parti dell’organismo o ingerito per trascuratezza delle norme igeniche, può causare gravi malattie infettive.
(foto da Microbiologia medica di L, Salvaggio. ed Piccin- PD)

za uscita della specializzazione, come hanno fatto gli antenati dei felini, dei canidi, dei bovidi, dei camelidi ecc., oppure mantenere il proprio corpo ad uno stadio di indifferenziata versatilità in attesa di una buona occasione.
Questa strategia è applicata spessissimo in natura e consente il persistere fino ai nostri giorni di forme di vita anche estremamente primitive dette scherzosamente “fossili viventi”, le quali non costituiscono sistemi biologici decadenti od involuti ma sistemi pronti a scattare non appena le condizioni ambientali lo consentono, per riuscire là, dove sistemi più evoluti e più specializzati hanno fallito.
Abbiamo innumerevoli esempi di queste presenze dal potenziale latente: in primo luogo i batteri, poi i funghi, che segnano forse la fase di passaggio dall’organizzazione dei tessuti di tipo vegetale a quella di tipo animale, i pesci primitivi quali il celacantus, i vari tipi di anfibi (l’esempio più primitivo dei quali è il curioso pesce perioftalmo) e così via.
L’occasione buona per il nostro antenato si presentò quando scoprì che, camminando sulle zampette posteriori, poteva mantenere libere quelle anteriori (formate già da vere e proprie manine) per fare cose che gli altri esseri più specializzati non avrebbero mai più potuto fare.

Così, quel nostro lontanissimo progenitore imboccò una nuova via dell’evoluzione, via che forse nessun altro essere prima di lui aveva intrapreso: la via dell’evoluzione della mente, la quale, sviluppando e potenziando il cervello, avrebbe modificato in modo inconfondibile anche la fisionomia della sua testa rendendola più tondeggiante e, tutto sommato, gradevole, come abbiamo noi oggi.