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Clima 7: Il clima e l’Uomo: ciò che i libri di storia non dicono

(Da un mio articolo pubblicato su Il Giornale di Vicenza del 31 agosto 1990 col titolo “Effetto Serra? Ma in passato è andata peggio!”)

“Piuttosto che niente è meglio piuttosto” dice un proverbio traboccante buonsenso.

È questa, forse, la ragione dell’insistenza con cui i grandi mezzi di comunicazione (sia pubblici che privati) parlano ancora del cosidetto “Effetto Serra”.

Hanno un bel dire gli scienziati più avveduti, che le anomalie climatiche di questi tempi non sono da attribuire a tale “effetto”: la Gente non si accontenta di sapere come “non”stanno le cose ma vuole spiegazioni, qualunque esse siano e, possibilmente, che scarichino la responsabilità della situazione su qualcuno!

Stando così le cose, la teoria sull’Effetto Serra risponde egregiamente alle aspettative della Gente, in quanto fornisce una spiegazione ingegnosa e a prima vista credibile e, sopratutto, fornisce un “colpevole” il quale, per di più, è molto di moda: l’inquinamento atmosferico!

Io sono con tutto il cuore dalla parte di coloro che denunciano l’inquinamento, di qualsiasi natura esso sia, e sopratutto sono vicino a coloro che cercano onestamente di prevenire l’inquinamento senza limitarsi furbescamente a trasferirne le fonti in casa d’altri; tuttavia, devo dichiarare il mio perfetto accordo con i Meteorologi più avveduti: pur essendo un fenomeno da tenere costantemente sotto controllo, l’Effetto Serra ha un ruolo solo marginale nell’attuale situazione climatica.[1]

Se osserviamo, infatti, i diagrammi delle temperature della Terra o, meglio, di alcune aree del pianeta (ché le medie globali sono assai poco significative) vediamo che nei dodici millenni  dell’Olocene (il periodo geologico in cui viviamo) il termometro avrebbe registrato degli sbalzi, di fronte ai quali le lievi modifiche attuali sono cose trascurabili.

Se, ad esempio, osserviamo il grafico delle temperature della Val Camonica, vediamo che la linea A-B indica la temperatura media esistente agli inizi del ventesimo secolo (temperatura che prendiamo come fase di riferimento per il suo clima equilibrato) la quale ci dà la chiara idea dell’estremo rigore delle temperature ambientali di 12 mila anni fa, quando per convenzione si conclude l’ultima Grande Glaciazione e con essa il periodo storico detto Paleolitico.

Fg. 1. Grafico dell’andamento termico verificatosi in Europa centro-meridionale negli ultimi 12.000 anni (da un’opera di E. Anati) e, sotto, grafico della piovosità negli ultimi 10.000 anni evidenziato dalle variazioni di livello del lago di Ginevra (da Leone Fasani in Il Veneto nell’antichità).

Fg. 1. Grafico dell’andamento termico verificatosi in Europa centro-meridionale negli ultimi 12.000 anni (da un’opera di E. Anati) e, sotto, grafico della piovosità negli ultimi 10.000 anni evidenziato dalle variazioni di livello del lago di Ginevra (da Leone Fasani in Il Veneto nell’antichità).

Mille anni più tardi, dopo alcuni secoli di clima via via meno rigido, la temperatura ritornò a scendere vertiginosamente fino a riportarsi ai livelli iniziali intorno al 9mila a.C… E fu solo dopo altri duemila anni (intorno al 7mila a.C.) che la temperatura raggiunse i valori di inizi ‘novecento.[2]

Nel millennio seguente, ci fu un clima notevolmente più caldo dell’attuale subito seguito da 500 anni di freddo intenso; poi, il termometro tornò a salire di prepotenza e fu proprio in questo periodo che nella nostra Penisola fiorì l’agricoltura dando inizio alla fase storica fondamentale detta “Periodo Neolitico”.

In breve, però, il caldo si fece torrido, le piogge diminuirono fortemente come mostra il grafico della piovosità (fg. 1 in basso), che scorre ad un livello notevolmente al disotto dell’attuale, e le terre si inaridirono danneggiando enormemente le colture agricole[3].

Incisioni Rupestri in Sahara

IncisioniRupestriSahara-foto

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Fg. 2 e 3.  A sx due grandi giraffe (in azzurro) ed un elefante (in rosso) incisi sulle rocce della regione sahariana del Fezzan (da Fiumi di pietra, di Angelo e Alfredo Castiglioni e Giancarlo Negro).
A dx: riproduzione grafica della stessa incisione (da Antiche Civiltà del Sahara, di Massimo Baistrocchi)
.

Non ostante ciò, tuttavia, le spece animali tipiche degli ambienti circumpolari, come gli orsi bianchi ed i pinguini dei quali si paventa la prossima estinzione a causa del riscaldamento globale, non scomparvero, e questo ci rassicura sul loro avvenire.

Il culmine del caldo fu raggiunto intorno al 4mila a.C., quindi la temperatura cominciò a diminuire con esasperante lentezza fino a tornare sui nostri valori intorno al 2mila a.C.

Questa “normalizzazione” del clima, pur se provvidenziale per il Sudeuropa, dovette costituire una catastrofe per le attività agricole della parte centrale e nord-orientale del continente dove, grazie al precedente lunghissimo periodo caldo (ma temperato dalla latitudine elevata) la popolazione umana era cresciuta in modo non ancora ben precisabile ma certo assai notevole, cosicché, continuando il raffreddamento del clima che portava le temperature al di sotto dei livelli attuali, di fronte alla drammatica diminuzione delle risorse agricole, si mise in moto una impressionante sequenza di migrazioni, le quali portarono i Nordeuropei ad  invadere con successive ondate migratorie le immense pianure sud-orientali del Vecchio Continente, l’Altopiano Iranico, l’Afghanistan, il Pakistan e l’India nord-occidentale, travolgendo popoli e culture che costituivano la punta di diamante della civiltà[4].

Poi, mentre altre ondate migratorie invadevano la Siberia meridionale e, attraversando l’attuale Mongolia, raggiungevano addirittura le isole più settentrionali dell’Arcipelago Giapponese, ulteriori andate volgevano a Sud e poi ad Ovest, ponendo le basi alle cosidette Civiltà Ittita in Anatolia e Micenea nel meridione della Penisola Balcanica, e portando definitivamente il resto dell’Europa dalla tarda Età della Pietra a quella del Bronzo.

Poi, verso la metà del secondo millennio a.C., la temperatura tornò a crescere sopra i livelli attuali per un paio di secoli, tornando poi a precipitare per mettere nuovamente in crisi l’agricoltura dei paesi a clima continentale e causando le tremende carestie ricordate negli annali egizi ed anatolici, e ciò diede il via a nuove devastanti migrazioni, che produssero la dissoluzione dell’Impero Ittita in Anatolia e della Civiltà Micenea in Grecia, mentre nell’Europa centro-meridionale si stanziavano popolazioni portatrici della Cultura dei Campi di Urne e di una civiltà protourbana che qualche secolo più tardi entrò in crisi per un ulteriore incrudimento del clima fattosi gelido e arido, incrudimento che, mettendo ancor più in crisi l’agricoltura, costrinse gran parte della gente ad abbandonare i centri abitati per tornare alla pratica della pastorizia seminomade.

Anche in Siberia gli sconvolgimenti climatici di fine secondo millennio provocarono disastrose migrazioni: cresciute di numero durante i circa due precedenti secoli a temperatura mite e messe in crisi dal rapido ritorno del freddo, le popolazioni mongolidi del Settentrione calarono a Sud ricacciando progressivamente verso Ovest le popolazioni europidi che vi si erano stanziate mille anni prima.

Queste ultime, note ai Greci col nome collettivo di Sciti e amalgamate in un groviglio etnico che presto assunse le caratteristiche di una travolgente ondata migratoria, nei primi secoli del primo millennio a.C. dilagarono ad Occidente degli Urali, invadendo gli immensi territori ad Est e a Nord del Mar Nero dai quali scacciarono le progredite popolazioni ivi stanziate, popolazioni che i Greci chiamavano Cimmeri.

Divisi in due tronconi dall’invasione giunta da Oriente, per sottrarsi all’incontenibile avanzata delle orde scitiche i Cimmeri fuggirono in parte verso Sud, riparando nell’Anatolia centrale, e in parte, la più numerosa, migrando a loro volta verso Occidente sino alle foci del Danubio.

Da qui, sempre perseguitati dal maltempo che da freddo arido stava volgendo al fresco umido, mentre una parte dei fuggitivi puntava sulla Grecia dando vita a quella che gli Storici chiamano Invasione Dorica, il grosso dell’orda fuggiasca, definita dagli Studiosi d’oltralpe Orda Cimmera o dei Cavalieri Nomadi, risaliva con foga disperata il corso balcanico del Danubio travolgendo ogni ostacolo che si opponeva alla sua avanzata.

Giunte infine sulla Pianura Pannonica, le diverse componenti dell’Orda Cimmera si smembrarono marciando in tutte le direzioni e, grazie alle rivoluzionarie tecniche di combattimento basate sull’uso sapiente della cavalleria e sulla superiorità delle armi, si imposero su gran parte dell’Europa, dove diffusero la pratica della Siderurgia dando così inizio all’Età del Ferro.

Frattanto, dopo un profondo picco di freddo intenso e asciutto che aveva interessato i primi secoli del primo millennio a.C.,  pur mantenendosi piuttosto umido il clima tornò lentamente ad addolcirsi, fino a raggiungere il livello attuale agli inizi dell’era cristiana, per poi superarlo nei secoli successivi favorendo in tal modo l’espansione dell’Impero Romano; quindi, già a partire dal terzo secolo, prese l’avvio una nuova piccola glaciazione, non freddissima ma molto umida, la quale rimise in moto i popoli del Nord e dell’Oriente, innescando così la terribile sequenza delle cosidette “invasioni barbariche” che portarono alla dissoluzione dell’Impero Romano….

Poi, a partire dal nono secolo, la temperatura tornò a salire  portandosi ai livelli attuali intorno all’anno mille e superandoli nell’Età Comunale e del primo Rinascimento, periodi il cui sviluppo fu indubbiamente favorito dalla dolcezza del clima.

Variazione linee di costa nel mediterraneo

Fg. 4.  Variazione linee di costa nel mediterraneo

A questa fase temperata seguì un altro raffreddamento, una breve ma intensa glaciazione certo non estranea alle guerre che per lunghi decenni travagliarono il panorama europeo, come le sanguinose campagne di conquista condotte dalla Svezia sul continente.

In questo breve periodo glaciale magistralmente illustrato dai pittori fiamminghi, l’avanzata dei ghiacciai alpini fu così pronunciata da raggiungere numerose borgate montane vecchie di secoli e provocarne la distruzione.

Infine, dai primi decenni dell’ottocento il clima cominciò ad addolcirsi (qualcuno direbbe “riscaldarsi”) con progressione decisa fino all’optimum climatico di inizi novecento, e ancora oggi la temperatura continua a salire seguendo la netta tendenza del diagramma termico della figura 1.

Durerà così ancora a lungo?

Oggi è impossibile dirlo, quindi, se non saremo capaci di escogitare un sistema per influire sui fattori del clima, dovremo armarci di pazienza e prepararci ad affrontare l’incertezza di un clima forse non peggiore di tanti altri che lo hanno preceduto.

 


Note

[1]  N.d.r: Quest’ultima affermazione ha suscitato le ire di alcuni fra i più accesi Ambientalisti o, meglio, di alcuni cosidetti “Ambientalisti” (diciamo “cosidetti” perché ai “veri” Ambientalisti la ricerca della Verità interessa almeno quanto interessa al nostro Autore).

[2] Quel periodo climaticamente felice è testimoniato dalle  meravigliose raffigurazioni di animali della Savana incise sulle rocce del Sahara, le quali mostrano come in quella lontana epoca il Nord-Africa fosse “verde”.

[3] Di questo terribile periodo, durato ben 2mila anni, abbiamo le testimonianze archeologiche nella Puglia settentrionale, dove i villaggi neolitici sorti numerosi nella fase umida iniziale furono abbandonati a favore di insediamenti sparsi di breve durata dovuta all’impoverimento dei suoli. Anche nel Veneto la siccità si fece sentire fortemente, tanto che nel Lago di Fimon (piccolo bacino di sbarramento situato presso il margine orientale dei Colli Berici, in provincia di Vicenza) il livello delle acque scese ad altre due metri sotto quello attuale, consentendo lo stanziamento di alcune capanne sorte direttamente sulle melme bianche del fondo essiccate dal Sole.

[4] Ed è a questo periodo, caratterizzato dal deciso ritorno delle perturbazioni atlantiche, che risale la forte sequenza nevosa che coprì il corpo del cosidetto Uomo del Similaun preservandolo dalla corruzione fino ai nostri giorni.

Clima 6: I comprensori climatici

(sintesi di alcuni articoli pubblicati sul Giornale di Vicenza nel 1990)

Come abbiamo visto negli articoli precedenti, se non ci fossero le correnti oceaniche a portare in giro per il globo il calore accumulato sotto il Sole dei Tropici, la temperatura terrestre dovuta all’irraggiamento solare sarebbe distribuita in modo decrescente dall’Equatore ai poli; quindi, ricevendo calore prevalentemente dal contatto con la superfice del pianeta (sia questa di terraferma od oceanica) l’atmosfera si scalderebbe maggiormente nelle zone tropicali, dove le masse d’aria, divenute meno dense (e dunque più leggere) si innalzerebbero richiamando incessantemente ai tropici aria fresca (e perciò più densa e pesante) dalle zone temperate e da quelle fredde.

Si formerebbero in questa maniera due grandi sistemi di correnti atmosferiche: uno, costituito da aria calda, viaggerebbe ad alta quota perdendo via via calore e si dirigerebbe verso i poli seguendo un percorso sempre più obliquo verso Oriente[1], mentre l’altro, costituito da aria fredda, viaggerebbe a bassa quota scendendo dalle latitudini elevate con direzione obliqua verso Occidente[2] e stenderebbe su gran parte della Terra una coltre gelida e asciutta, che manterrebbe il nostro pianeta nella morsa di una tremenda glaciazione[3].

Fortunatamente per noi, anche se a volte uno spiffero settentrionale riesce a guastarci qualche giorno delle vacanze estive, il clima terrestre non è così regolarmente ed eternamente rigido, e ciò perché, grazie alla presenza delle superfici marine (che fungono da locali accumulatori di energia termica) e sopratutto grazie all’esistenza delle correnti oceaniche calde, che si spingono fino alle latitudini circumpolari, le masse atmosferiche possono ricevere calore non solo nelle zone tropicali ma anche in altre aree del globo.

Dunque, la diversificazione e l’irregolare dislocazione delle fonti di energia termica garantite dalle correnti oceaniche rimescolano le carte delle correnti atmosferiche, rendendo il clima vario e, per la gioia dei meteorologi, imprevedibile!

Benché l’atmosfera costituisca uno strato gassoso unico attorno all’intero pianeta, esistono poi dei fattori ambientali che in qualche modo ne incrinano l’unità: innanzitutto, ci sono le masse continentali che, con la loro estensione in un senso o nell’altro e con gli arcipelaghi ad esse collegati, frazionano la superfice acquea in vari oceani più o meno vasti e in numerosissimi bacini di dimensioni minori costituiti dai mari e dai laghi… E noi sappiamo quanto diversa sia l’interazione con l’atmosfera da parte delle superfici emerse rispetto quelle oceaniche o marine…

E poi ci sono le catene montane, le quali, formando delle barriere fisiche più o meno elevate ed estese, minano alla base l’unitarietà dell’atmosfera, e noi sappiamo che l’ambiente aereo in cui viviamo, la Biosfera, ha uno spessore assai sottile (meno di una decina di kilometri) che si rivela pertanto molto sensibile agli ostacoli.

Ebbene, tutti questi fattori contribuiscono a determinare le caratteristiche climatiche delle diverse aree del nostro pianeta, aree che chiameremo Comprensori climatici perché, pur essendo inevitabilmente collegati per reciproche influenze ai climi di altre aree, se ne distinguono tuttavia per determinate peculiarità e per una certa quale autonomia.

Prima, però, di affrontare l’argomento riguardante i Comprensori Climatici, è bene dare un’occhiata a dei fenomeni particolari, legati alla presenza delle Correnti Oceaniche in determinate zone del pianeta, fenomeni che condizionano la formazione dei deserti e degli uragani.

Osservando le mappe climatiche dell’intero pianeta, si può notare che le aree desertiche sono sempre situate ad Oriente delle zone interessate dalle Risorgive fertili: così il Sahara si trova ad Est del comprensorio vulcanico sottomarino delle Azzorre e delle Canarie, il deserto della Namibia è ad Est delle risorgive al largo del Sudafrica, il deserto di Atacama è ad Est delle risorgive che danno origine alla Corrente Sudequatoriale del Pacifico, il deserto della California è ad Est delle sorgenti della Corrente omonima.

Perché questo avvenga è presto detto: dovendo percorrere una circonferenza maggiore nelle 24 ore, alle alte quote la velocità di rotazione dell’aria attorno all’asse terrestre è notevolmente maggiore di quella della superfice dell’oceano, cosicché, calando di quota all’interno di un gorgo di alta pressione, la massa d’aria discendente si avvantaggia verso Est portando sul vicino continente la sua calura (acquistata per compressione durante la discesa) e la sua aridità, calura e aridità che caratterizzano le brezze torride che succhiano la vita alla vegetazione favorendo l’avanzata del deserto.

Da tale sequenza, sembrerebbero discostarsi i deserti del Medio Oriente e dell’Arabia, il deserto australiano ed il deserto della Mongolia: in realtà, però, i deserti del Medio Oriente si trovano ad Est dell’estesa area idrotermale sottomarina collegata ai vulcani dell’Egeo, il Deserto Arabico è ad Est delle risorgive fertili del Mar Rosso, i cui 33° d’estate e 26° d’inverno sono ben poca cosa a confronto con le temperature infernali che affliggono l’interno dell’Arabia e dell’Egitto, ed è appunto tale divario che produce la discesa di aria asciutta dalle alte quote, la quale, giunta al suolo ed espandendosi, produce le micidiali brezze torride che portano alla desertificazione.

Quanto al deserto australiano, esso si trova immediatamente ad Est della fredda Corrente Australiana Occidentale e a Sud-Est del vasto bacino idrotermale a Meridione di Giava.

Il vastissimo deserto della Mongolia, che comprende importanti porzioni della Cina e della Siberia meridionale, deve invece il suo clima arido all’enorme distanza dall’umidità esalata dai mari occidentali  (Mediterraneo, M. Nero e M. Caspio), dallo sbarramento delle correnti monsoniche operato dalla Catena Imalajana e dalla vicinanza  con la sede  dell’Anticiclone (continentale) Siberiano.

Per quanto riguarda l’origine degli Uragani (detti anche Cicloni e Tifoni) analizzando le mappe climatiche, notiamo che quegli spaventosi fenomeni nascono sempre lungo l’asse terminale delle Correnti Oceaniche calde: il fenomeno si spiega con l’allargamento del corso di dette correnti in prossimità degli ostacoli che ne frenano o bloccano la corsa, come catene di isole o coste continentali, allargamento che aumenta enormemente la superfice che cede calore all’aria soprastante, fondamentali sono poi il sopraggiungere di sempre nuova acqua calda in sostituzione di quella raffreddata dall’evaporazione, e l’enorme spessore delle  correnti stesse, spessore che garantisce una scorta energetica inesauribile.

Così, nell’Atlantico gli uragani si formano lungo il corso della calda Corrente della Guyana, che diventa poi Corrente dei Caraibi allargandosi nell’intrico delle isole; nel Pacifico si formano sulle scie finali delle calde Correnti Nordequatoriale (obiettivo Giappone) e Sudequatoriale (obiettivo Filippine, Indonesia e Cina) e sulla scia della calda Corrente Australiana Orientale (che colpisce duramente soprattutto il Nord-Est del Paese).

Infine, non potendo ovviamente affrontare in questa sede i fattori ambientali che determinano le caratteristiche di tutte le aree della Terra, ci limiteremo qui ad appuntare la nostra attenzione sul Comprensorio Climatico Nordatlantico.

Già dal nome si comprende che esso è delimitato ad Est dall’Europa (soprattutto quella centro-occidentale) e dal Nordafrica; ad Ovest dalla fascia caraibica del Sudamerica, dall’America Centrale e dalla fascia centrorientale del Nordamerica; a Nord dall’Artide e a Sud dall’Equatore.

Ovviamente, il protagonista principale del nostro studio è l’Atlantico centro-settentrionale, nel cui ambito, altre alla già nota (per noi) attività termoregolatrice attuata a livello locale dalla Corrente del Golfo e dalle sue Derivate, esistono due grandi poli di influenza climatica: la vasta Depressione d’Islanda e l’immenso spazio interessato dal cosidetto Anticiclone delle Azzorre.

Oltre ai “primi attori” però, è bene ricordare l’esistenza di altri fattori che, pur non avendo un ruolo primario, non sono tuttavia neppure delle semplici “comparse”: parlo dei mari interni, quali il Mediterraneo con i suoi vari bacini, il Mar Nero ed il Mar Rosso, e parlo delle montagne: la lunga catena dell’Atlante in Nordafrica disposta di traverso rispetto ai venti dominanti, l’Arco Alpino che i venti dominanti tende a fenderli, gli Appennini disposti un po’ di traverso, e tutte le altre catene montuose del continente europeo.

Il “motore” del clima del nostro Comprensorio è certamente la Depressione d’Islanda, la quale, quando si trova con le batterie al massimo come in questi primi mesi del 2014, è in grado di produrre ondate di maltempo a raffica, con cadenze di pochissimi giorni l’una dall’altra.

Questa Depressione è generata dall’intrusione, nelle fredde acque del Nordatlantico, dell’immenso fiume caldo costituito dalla Corrente del Golfo, le cui acque, scontrandosi con gli estesi basamenti sottomarini dell’Islanda e delle Isole Britanniche, sono costrette a risalire in massa verso la superfice, allargando così enormemente la loro area di contatto con la soprastante atmosfera.

Ed è attraverso tale contatto che avviene la straordinaria cessione di energia alla porzione di atmosfera stazionante in zona: riscaldata alla base, e divenendo perciò più espansa e leggera, l’immane massa d’aria si innalza sotto la spinta della pesante aria fredda circostante, la quale però si riscalda a sua volta alimentando così all’infinito il risucchio di aria da zone circostanti sempre più vaste… e qui entra in gioco la diversa velocità di rotazione attorno all’asse terrestre delle masse d’aria provenienti dalle diverse latitudini, diversità che determina il senso di rotazione antiorario del vortice depressionario[4].

La depressione generata dall'intrusione termica della Corrente del Golfo nelle gelide acque del Nordatlantico.

La depressione d’Islanda è generata dall’intrusione termica della Corrente del Golfo nelle gelide acque del Nordatlantico.

La Dorsale Nordatlantica emerge dalle acque a formare l'Islanda.

La Dorsale Nordatlantica emerge dalle acque a formare l’Islanda.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Quando detto vortice è ben cresciuto in spessore e in altezza, viene catturato dai venti dominanti da Ovest e spinto con forza contro il Continente Europeo dove, continuando a risucchiare aria da ogni parte, la sua azione è anticipata nella corsa dal braccio meridionale che costituisce il fronte caldo, il quale, oltre all’aumento della temperatura ambientale, provoca le vaste coperture nuvolose che danno piogge copiose e persistenti. Proseguendo la corsa del vortice verso Est, sopraggiunge un po’ in ritardo il braccio settentrionale delle spirali, il quale, oltre a rinfrescare repentinamente l’ambiente, con la sua aria fredda, pesante e poco umida (o addirittura asciutta) si insinua sotto l’aria carica di umidità lasciata dal fronte caldo e la solleva: all’inizio, tale azione dà origine a violente manifestazioni temporalesche ma, passate queste, avendo il sollevamento in quota spremuto l’umidità dell’aria[5], ritorna il  sereno.

Ovviamente, persistendo il pesante scambio energetico oceano-atmosfera a Sud dell’Islanda, la Depressione che da tale isola prende il nome continua la sua potente attività di attrazione e ciò, oltre alle conseguenze climatiche che abbiamo visto sul suo versante orientale, agisce a volte molto pesantemente anche sul versante occidentale dell’Atlantico: quando, infatti, il fronte freddo del vortice sia abbatte sulle coste orientali del Canada e degli USA sommandosi all’azione refrigerante portata sulle medesime coste dalla fredda Corrente del Labrador, le regioni nordorientali del continente americano vengono avvolte da un tremendo sudario di gelo; quando invece, sulle medesime regioni si abbatte il fronte caldo della Depressione, scorrendo in quota sullo strato gelido al suolo detto fronte si accanisce con copiosissime precipitazioni nevose.

Questa è la sequenza evolutiva di tutti i vortici perturbati generati dalla Depressione d’Islanda, il cui fronte di avanzata verso Est, a seconda della loro intensità e se non intervengono fattori di disturbo, può spaziare dal Nordafrica al Nordeuropa.

E questo è esattamente quanto vedremo nel prossimo articolo dal titolo I fattori di disturbo.


Note

[1]  Ricordiamo che, allontanandosi dall’Equatore mantenendo la velocità di rotazione attorno all’asse terrestre propria dei tropici, man mano che si spostano verso le latitudini elevate, le masse d’aria in quota si trovano a correre per inerzia ad una velocità superiore a quella della sottostante superfice del pianeta, sulla corsa della quale, perciò, si avvantaggiano, tanto che, giunte nella zona delle latitudini medie, la loro direzione di marcia è orientata decisamente ad Est dando origine alle cosidette “Correnti a getto”.

[2]  Ovviamente, la circonferenza dei paralleli aumenta man mano che ci si allontana dai poli cosicché, per un fenomeno analogo ma inverso rispetto a quello descritto nella nota precedente, partendo con una velocità di rotazione bassa per la vicinanza all’asse terrestre, le masse d’aria fredda dirette verso i tropici si attarderebbero per inerzia sempre più verso Ovest rispetto alla rotazione della sottostante superfice del pianeta, dando così origine ai venti Alisei.

[3] In realtà, per i motivi descritti alle note precedenti, il movimento delle due opposte correnti subisce un’interruzione a metà strada: qui infatti, nel suo moto circolare da Ovest ad Est, la calda corrente in quota perde progressivamente calore e si appesantisce scendendo fino a tornare al suolo dove subisce il risucchio verso Sud prodotto dal calore dei Tropici. Dalle medesime latitudini intermedie poi, a causa del forte divario fra la temperatura del suolo in quell’area rispetto alle zone polari, il gioco si ripete con correnti di aria mite che si innalzano di quota muovendo verso i poli in avvantaggiamento verso Oriente, e correnti fredde che scendono dai poli in attardamento verso Occidente.

Pur con quella interruzione intermedia, però, l’effetto glaciale sul clima terrestre non cambierebbe.

[4]  Dotata di una velocità di rotazione minima, la fredda aria proveniente dalle latitudini settentrionali tende ad attardarsi ad Ovest rispetto al centro depressionario che la risucchia, poi si mischia con la tiepida aria proveniente dalle zone occidentali (che ha la stessa velocità del centro depressionario) dando corpo al braccio della spirale detto fronte freddo. Dal canto suo, l’aria calda e umida proveniente dalle latitudini meridionali è dotata di una velocità di rotazione maggiore, per cui tende ad avvantaggiarsi verso Est rispetto al centro depressionario, poi, mischiandosi con l’aria tiepida proveniente dalle zone orientali, va a formare il braccio della spirale detto fronte caldo, il quale, analogamente a quello freddo, si precipita con foga verso il centro della depressione incrementando l’energia termica che alimenta l’immane vortice.

[5] È noto che la quota di umidità in sospensione nell’aria è direttamente proporzionale alla temperatura ed alla pressione dell’aria stessa, pertanto, quando questa viene spinta in alto, la sua pressione diminuisce e con questa anche la temperatura, e ciò fa condensare e precipitare l’umidità tanto più rapidamente e violentemente quanto rapida è la risalita, dopo di che, esaurita la disponibilità di vapore acqueo, torna il sereno.

Clima 5: le correnti oceaniche “secondarie”

(sintesi di alcuni articoli pubblicati sul Giornale di Vicenza nel 1990)

Nel Golfo di Guinea, difronte alle coste degli Stati centroafricani, è attivo un raggruppamento di vulcani sottomarini corredato da notevoli apparati idrotermali, la cui attività dà vita ad una vasta risalita di acque abissali che, col loro attardamento, danno a loro volta origine alla cosidetta Corrente Equatoriale Atlantica, la quale costituisce il tipico modello di quella, che definirei “Corrente Primaria” od anche “Corrente Madre”, poiché da essa prendono poi origine due “Correnti Figlie” o “Secondarie”.

Mappa delle correnti oceaniche nell’Atlantico: si noti la vasta Corrente Equatoriale che, da fredda nel Golfo di Guinea, diventa calda al largo del Brasile, a nord del quale si dirige la sua diramazione più larga. (da World Atlas dell’Enciclopedia britannica).

Mappa delle correnti oceaniche nell’Atlantico: si noti la vasta Corrente Equatoriale che, da fredda nel Golfo di Guinea, diventa calda al largo del Brasile, a nord del quale si dirige la sua diramazione più larga. (da World Atlas dell’Enciclopedia britannica).

Non ostante la sua vastità[1] e non ostante la carica di sali minerali che rendono fertili le sue acque, nel primo tratto del suo percorso verso Ovest questa Corrente non appare granché insolita, tuttavia, durante la traversata del medio Atlantico, essa naviga a lungo sopra il tratto equatoriale della Dorsale Medio Atlantica[2], dalle cui emissioni riceve un apporto idrico e termico di un’imponenza straordinaria.

Rilevamento radar del fondale atlantico, dal quale si nota il tratto della Dorsale che corre quasi esattamente lungo la linea dell’Equatore, aumentando in tal modo la portata idrica e termica della Corrente Equatoriale. (da Atlante geografico Rizzoli-Zanichelli).

Rilevamento radar del fondale atlantico, dal quale si nota il tratto della Dorsale che corre quasi esattamente lungo la linea dell’Equatore, aumentando in tal modo la portata idrica e termica della Corrente Equatoriale. (da Atlante geografico Rizzoli-Zanichelli).

Giunta a ridosso della piattaforma continentale sudamericana e cozzando contro il Nordest del Brasile, questa colossale massa d’acqua in apparente moto verso Ovest si divide in due possenti “rami”, che da questo punto, sotto la spinta continua di altra acqua, sono costretti ad abbandonare la rotta materna ed a muoversi seguendo due opposte direzioni.

Il “ramo” meridionale, infatti, viene deviato verso Sud e, muovendosi ora non più per attardamento ma con moto proprio (derivante però dalla spinta prodotta dall’inarrestabile sopraggiungere di altra acqua portata dalla “Corrente madre”), segue per lunghissimo tratto la costa del Sudamerica prendendo il nome di Corrente Brasiliana (corrente che gioca un ruolo fondamentale sul clima di quel continente[3]) per poi dare luogo alla Corrente Circumantartica.

Temperature nel mese di febbraio in una sezione  della corrente del Golfo al  largo di ChesaPeake Bay (Florida) secondo le misure della Atlantis.

Temperature nel mese di febbraio in una sezione della corrente del Golfo al largo di ChesaPeake Bay (Florida) secondo le misure della Atlantis.

Pur deviando lievemente a Nord rispetto alla rotta “materna”, l’altro “figlio” della Corrente Equatoriale, il più robusto, continua col suo “moto apparente per attardamento” verso Ovest[4], assumendo dapprima il nome di Corrente della Guiana e poi quello di Corrente dei Caraibi, e con tale nome esso si inoltra nel Golfo del Messico, dove termina la sua corsa poiché la lieve striscia montuosa dell’America Centrale non solo gli impedisce di proseguire verso Ovest, ma gli imprime pure la velocità di rotazione attorno all’asse terrestre propria di quella latitudine.

Si noti la grande profondità a cui giungono le acque calde trasportate dalla corrente del Golfo, la cui portata è di ben 4 Kilometri cubi al minuto ed una velocità, nello stretto fra Cuba e la Florida, di ben 8 Km orari.

Da questo momento quindi, non muovendosi più per attardamento rispetto alla rotazione terrestre, anche questo ramo della Corrente Equatoriale Atlantica cessa la sua esistenza come Corrente Primaria e, sotto la spinta della pressione prodotta all’interno del Golfo del Messicco dall’inarrestabile afflusso di acqua portato dalla Corrente dei Caraibi, trova una via d’uscita attraverso lo stretto fra la Florida e l’isola di Cuba.

Nasce così la nuova Corrente nota col nome di Corrente del Golfo, che tanta importanza riveste per il clima dell’intero Comprensorio Nordatlantico e in particolare per l’Europa Nordoccidentale.

Mossa dunque dalla spinta della pressione idrostatica permanente nel Golfo del Messico, spinta che fa di essa una Corrente Secondaria, la Corrente del Golfo si muove dapprima costeggiando la piattaforma continentale del Nord America, poi, man mano che, col crescere della latitudine, si trova a percorrere circonferenze sempre più brevi attorno all’asse del globo, grazie alla sua maggiore velocità iniziale devia gradualmente verso Oriente fino a che, cozzando contro la piattaforma delle isole britanniche, si divide in due rami: di questi, uno si mantiene sull’Atlantico e, pur continuando la sua marcia verso Est, va ad aggredire con la sua carica termica la calotta artica,[5] mentre l’altro si divide a sua volta in due diramazioni, la maggiore delle quali si infila nel Canale della Manica per mitigare il clima del Nord Europa, mentre l’altra vira a Sud attirata dall’immane circuito mosso dalle risorgive fertili attivate dal vasto bacino vulcanico delle Azzorre e delle Canarie.

Non è il presunto riscaldamento dell’aria ai poli che aggredisce i ghiacci: che li scioglie è il calore dell’acqua in cui essi sono immersi.

Non è il presunto riscaldamento dell’aria ai poli che aggredisce i ghiacci: che li scioglie è il calore dell’acqua in cui essi sono immersi.

Per quanto riguarda invece la Corrente Circumantartica, il discorso è più complesso di quanto potrebbe apparire dalle semplicistiche raffigurazioni, che di solito si trovano negli atlanti.

Come suggerisce la presenza di vari apparati vulcanici lungo la fascia perimetrale della sua piattaforma continentale, attorno all’Antartide esistono sicuramente le condizioni per la formazione di una o più Correnti Primarie per attardamento, la cui indubbia esistenza è testimoniata dalla fertilità delle acque dell’intera area; tuttavia, a causa dell’elevata latitudine e, di conseguenza, a causa della forte inclinazione della superfice dell’area stessa rispetto all’asse terrestre, la differenza fra la velocità di rotazione della superfice e quella del fondo del mare è minima, cosicché la tendenza all’attardamento per inerzia delle acque in risalita è molto debole…

Mappa del Continente antartico sulla quale si notano varie aree vulcaniche (triangolini rossi) che danno origine a numerose ma deboli Correnti in attardamento (frecce sotto costa puntate in senso antiorario) le quali vengono subito catturate dalla Corrente Cir-cumantartica che scorre più al largo (frecce puntate in senso orario). (dal Novissimo Atlante geografico mondiale del Touring Club Italiano)

Mappa del Continente antartico sulla quale si notano varie aree vulcaniche (triangolini rossi) che danno origine a numerose ma deboli Correnti in attardamento (frecce sotto costa puntate in senso antiorario) le quali vengono subito catturate dalla Corrente Cir-cumantartica che scorre più al largo (frecce puntate in senso orario). (dal Novissimo Atlante geografico mondiale del Touring Club Italiano)

Schema grafico che mostra la progressiva riduzione del divario di velocità di rotazione attorno all’asse terrestre fra superfice e fondo oceanico.

Schema grafico che mostra la progressiva riduzione del divario di velocità di rotazione attorno all’asse terrestre fra superfice e fondo oceanico.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Le linee rosse disposte a raggera indicano il dislivello effettivo superato dalle acque fertili in risalita; le linee brune orizzontali indicano l’effettivo allontanamento (alle diverse latitudini) delle masse d’acqua in risalita dal livello di rotazione iniziale sul fondo, livello rappresentato dalle sottili linee verticali nere parallele all’asse di rotazione.

 Ed è appunto tale debolezza che impedisce loro di vincere l’impeto della calda Corrente Brasiliana, la quale, giunta in prossimità dell’Antartide, ha orientato la propria rotta decisamente verso Est, cosicché, avvantaggiata dalla elevata velocità  di rotazione attorno all’asse terrestre[6] grazie alla minore circonferenza da percorrere alle latitudini elevate, la cospicua massa delle sue acque ha buon gioco nel travolgere e trascinare con sé le deboli risorgive fertili presenti in zona, dando luogo alla Corrente Circumantartica famosa per la sua pescosità.

Al pari della Corrente del Golfo, anche questa corrente è potenzialmente pericolosa per i ghiacci polari, tuttavia, dato che questi sono in gran parte situati al sicuro sulla terraferma, e dato che la temperatura delle sue acque è mitigata dal rimescolamento con quelle fredde delle Risorgive Fertili, la sua azione demolitrice verso la copertura glaciale del Polo Sud è meno incisiva.

Riguardo, infine, allo straordinario andirivieni delle correnti oceaniche nell’area tropicale del Pacifico, osservando la mappa di dette correnti notiamo che, all’estremità orientale tanto della corsia Nord[7] quanto di quella Sud, esistono due vaste aree di risorgiva fertile, le cui acque fresche formano a Nord la Corrente (primaria) della California (famoso vivaio per le balene, che qui, per la fertilità delle acque, trovano abbondanza di nutrimento) la quale assume poi il nome di Corrente Nord-equaroriale, e a Sud la Corrente (primaria) Sudequatoriale meglio nota come La Niña (anche questa famosa per la pescosità delle sue acque, finché non si arresta di tanto in tanto per dare luogo a El Niño portatore di carestia).

Durante la lunghissima traversata oceanica sotto i raggi cocenti del Sole dei Tropici, le acque di entrambe le correnti si riscaldano fino a raggiungere la temperatura normale per quella latitudine e, una volta giunte a ridosso degli arcipelaghi che formano l’immenso Arco Vulcanico ad Est dell’Asia e dell’Australia, pur subendo un forte rallentamento riescono in parte ad intrufolarsi nei numerosi varchi fra le isole e a passare oltre, verso l’oceano Indiano, incrementando con la propria, la carica termica e la portata delle numerose risorgive fertili generate dagli innumerevoli apparati idrotermali attivi nell’ambito di detto arco vulcanico.

Il settore occidentale delle correnti oceaniche del Pacifico  (dal Grande Atlante di Selezione dal Reader’s Digest)

Il settore occidentale delle correnti oceaniche del Pacifico  (dal Grande Atlante di Selezione dal Reader’s Digest)

 

A causa, però, dell’ingorgo prodotto della barriera di isole che ne ostacola il deflusso verso Ovest, e pressate dalla spinta incessante delle Correnti Madri, le acque della parte più esterna della Corsia Nord deviano verso Settentrione dando vita alla Corrente Secondaria detta Curo Shio (Corrente Nera) la cui carica termica va a contribuire così all’aggressione della Calotta Artica, mentre le acque più esterne della Corsia Sud, ostacolate dalla piattaforma che regge le innumerevoli isole del Pacifico meridionale, già da tempo hanno cominciato a disperdersi verso Sud.

Ma non è tutto: le due Correnti Primarie testé descritte scorrono[8] ben discoste l’una dall’altra, cosicché tra di loro c’è spazio sufficiente per il riflusso dell’acqua in esubero sul fronte della Corrente Sudequatoriale, acqua che, costretta a tornare verso Est, dà origine alla Corrente Secondaria detta Controcorrente Equatoriale, il cui percorso coincide dunque con quello che, con termine di carattere stradale, potremmo definire “lo spartitraffico” fra le corsie Nord e Sud.

Chiarito il problema costituito delle origini delle Correnti Oceaniche, appare ovvio che ci si debba ora occupare dell’influenza, che tali Correnti esercitano sul clima delle diverse aree che attraversano, aree che, quando sono sufficentemente vaste e in certo qual modo autonome rispetto al resto del globo[9], in questo studio saranno per semplicità definite Comprensori Climatici.


Note

[1]  La vastità di queste Correnti supera in larghezza quella degli agglomerati vulcanici che le hanno generate, e questo a causa dell’attrito con le acque circostanti che, seguendo più velocemente la rotazione terrestre, oppongono loro resistenza provocando l’allargamento del loro fronte sotto la spinta incessante del sopraggiungere di altre acque.

[2] Quel tratto della Dorsale Atlantica si estende per qualche migliaio di chilometri in direzione quasi parallela all’Equatore, ed il suo immenso apparato idrotermale produce una quantità inimmaginabile di acqua caldissima ricca di minerali in sospensione, la quale, risalendo verso la superfice, va ad incrementare in modo straordinario la portata idrica e termica della Corrente Equatoriale Atlantica.

[3] Lasciamo per il momento questa corrente secondaria per parlare della sua “gemella”, riservandoci però di tornare ad interessarci di essa più taldi per il ruolo che essa gioca nei movimenti delle acque dell’Emisfero Sud.

[4] Continuando nel moto apparente per attardamento, questo ramo della Corrente Equatoriale Atlantica mantiene per il momento la caratteristica delle Correnti primarie.

[5] Ed è appunto questo fatto che provoca lo scioglimento dei ghiacci polari, mentre, come vedremo in altro articolo, il riscaldamento globale è semmai una conseguenza della riduzione delle superfici glaciali che riflettono l’energia solare,

[6] Ricordiamo che la velocità di rotazione di questa corrente attorno all’asse terrestre è ancora quella impostale dall’orto con la costa brasiliana da cui essa ha avuto origine, velocità, dunque, adeguata alle latitudini tropicali e molto superiore a quella necessaria per compiere la stessa rotazione giornaliera nell’area circumantartica.

[7]  Mi si perdoni l’uso di termini “stradali”, ma la fascia tropicale del Pacifico ricorda proprio un’autostrada a più corsie con sensi di marcia opposti, cosicché i termini di uso stradale risultano di più immediata comprensione.

[8] Ricordiamo che il verbo “scorrere” è usato qui solo in senso figurato, poiché in realtà entrambe le Correnti sono solo in attardamento rispetto alle acque stanziate a quella latitudine in accordo con la velocità di rotazione terrestre.

[9] In realtà, sulla superfice della Terra non esistono aree climatiche autonome, poiché ognuna di esse è soggetta all’influenza “a catena” di ciò che avviene in tutte le altre, tuttavia, grazie all’esistenza di barriere fisiche (come le grandi catene montuose) alcune di esse godono di una certa autonomia, che rende il loro clima particolare.

Clima 4: risolto l’enigma delle correnti oceaniche

Quanti, fra i nostri Lettori, hanno visto qualche volta delle competizioni di atletica leggera, hanno certamente notato che nelle gare di velocità gli atleti partono da postazioni situate in posizione scalare; le più interne alle curve risultano gradualmente arretrate rispetto a quelle disposte verso i margini dell’area sportiva, e ciò perché, se i blocchi di partenza fossero tutti appaiati su una medesima linea, gli atleti delle corsie esterne si troverebbero svantaggiati nelle curve a causa della maggiore lunghezza delle loro corsie di marcia.

Ebbene, nella risalita dal fondo degli oceani alla superfice, alle acque delle correnti ascensionali capita un po’ la medesima cosa; girando attorno all’asse terrestre ad una profondità di tot chilometri, nelle ventiquattr’ore esse si trovano a compiere una circonferenza minore rispetto a quelle che dovranno percorrere nello stesso intervallo di tempo nel corso della risalita, poiché questa le allontana dall’asse terrestre allungando il raggio e di conseguenza l’estensione delle circonferenze da percorrere alle diverse quote.

Schema esemplificativo dell’attardamento delle acque in risalita dal fondale oceanico

Schema esemplificativo dell’attardamento delle acque in risalita dal fondale oceanico

Diagramma esemplificativo dell’attardamento, alle diverse profondità, delle acque in risalita dal fondale oceanico: trovandosi a percorrere circonferenze sempre maggiori durante la risalita, a causa della minore velocità iniziale di rotazione attorno all’asse terrestre esse si attardano progressivamente, giungendo in prossimità della superfice in una posizione notevolmente scostata ad occidente rispetto a quella perpendicolare al punto di partenza.

Dunque, risalendo verso la superfice, le acque di provenienza profonda e cariche di sostanze minerali si troverebbero a percorrere circonferenze di lunghezza via via crescente, cosicché, mantenendo per inerzia la velocità di rotazione iniziale, esse si attarderebbero sensibilmente rispetto all’ambiente circostante.

In realtà, però, l’attardamento sarebbe minore di quelle che potrebbe risultare dai calcoli, poiché, pur se dotate di una superiore inerzia dovuta al carico di minerali in esse disciolti, le acque in risalita subirebbero inevitabilmente un certo trascinamento da parte delle acque stazionanti alle diverse quote.  Il ritardo, tuttavia, sarebbe ugualmente sensibile, cosicché una persona, che si trovasse su un’imbarcazione immobile sulle acque in attardamento rispetto alla normale velocità di rotazione della superfice oceanica a quella latitudine, vedendo delle terre lontane che la sopravanzano verso Est, avrebbe la netta impressione di navigare su una corrente diretta ad Ovest[1].

Le correnti oceaniche sono generate da profonde correnti calde che risalendo la superfice si attardano sulla rotazione terrestre

Le correnti oceaniche sono generate da profonde correnti calde che risalendo la superfice si attardano sulla rotazione terrestre

C’è sempre una grande fonte di calore attiva sul fondo dell’oceano all’origine delle cosiddette “correnti oceaniche”, le quali in realtà non sono delle “correnti”, cioè non sono delle masse d’acqua in movimento verso Ovest, ma ruotano anch’esse verso Est attorno all’asse terrestre, attardandosi però a causa della loro velocità iniziale, che è inferiore rispetto a quella delle acque superficiali.

«E va bene… – si dirà ancora – ma, se l’acqua risalita dal fondale oceanico non riesce a raggiungere la superfice perché la sua temperatura residua è insufficiente a darle la spinta finale, come si spiega che, nella zona di risalita, la temperatura superficiale dell’oceano è notevolmente più bassa rispetto a quella che dovrebbe avere a quella latitudine e che si riscontra invece all’estremità occidentale della stessa fascia oceanica? »

Anche in questo caso la risposta è semplice: attardandosi ad Ovest, le acque “fresche” risalite dal fondo strisciano sotto lo strato delle calde acque superficiali mescolandosi ad esse per attrito, cosicché ne risulta un miscuglio che presenta una temperatura nettamente inferiore a quella che sarebbe propria a quella latitudine, ma nettamente superiore a quella residua delle acque risalite dal fondo dell’oceano.

Ovviamente, fino a che continua il flusso dalle profondità oceaniche, allo stesso modo continua anche l’attardamento verso Ovest della “cosiddetta corrente”, la quale continuerà a diffondere nell’oceano le sue acque rese fertili dalla carica di elementi minerali sottratti agli apparati vulcanici sottomarini.

Acque fertili, dunque, che favoriscono un’esplosiva proliferazione del fitoplancton, il quale, oltre a produrre la massima parte dell’ossigeno atmosferico, costituisce la base della catena alimentare dell’oceano, dallo zooplancton al krill ed alle balene che di questo si nutrono, dagli invertebrati più primitivi ai pesci di tutte le dimensioni, dai pinguini e dalle foche agli squali  ed alle orche voraci.

Quando però si attenua o addirittura si spegne una delle centrali termiche del sistema di termoregolazione[2] del nostro pianeta, avviene la catastrofe: quella, che era conosciuta come una corrente portatrice di vita per la fertilità delle sue fresche acque, si arresta[3] e in breve la superfice oceanica si riscalda sotto i raggi del Sole adeguandosi alla temperatura normale per quella latitudine, perdendo però la sua rigogliosa vitalità.

Questo, ad esempio, è ciò che avviene quando si verifica l’evento detto “el Niño”, evento che si crede sia una “corrente calda” che porta la morte della pesca ma che, in realtà, costituisce il ripristino delle condizioni ambientali che sarebbero “normali” a quella latitudine, condizioni che invece sono abitualmente alterate dalla frescura portata dalla cosidetta “Niña”, l’area resa fertile e ricca di vita dall’attardamento verso Ovest delle acque risalite dagli abissi oceanici grazie all’attività idrotermale presente al largo della costa peruviana.

Il fenomeno del Niño, evidenziato in rosso.

Il fenomeno del Niño, evidenziato in rosso.

In questa mappa del Servizio meteo degli Usa, è ben evidenziata in rosso l’area colpita dal fenomeno detto El Niño, fenomeno che in realtà non è una “corrente calda” come si crede, ma che consiste nel ripristino della normale temperatura della superfice oceanica in seguito alla scomparsa della Niña, la fresca e fertile “corrente” emersa dal fondale oceanico al largo delle coste peruviane, la quale, per la pescosità delle sue acque, garantisce benessere a tutte le popolazioni della zona.

Come abbiamo visto, dunque, tanto nell’area del Sudpacifico quanto in tutti gli altri oceani e mari della terra, ciascuna fase di sviluppo di queste benefiche “pseudo correnti” dipende dall’attività idrotermale che avviene sul fondo degli abissi[4].

Tale attività tuttavia, al pari di quanto avviene nelle aree vulcaniche sulle terre emerse, può avere una durata estremamente varia, che potrebbe essere di solo qualche giorno (come avviene nel caso dell’Etna) o di qualche mese, ma può anche durare addirittura millenni (come nel caso delle eruzioni del Trappo Siberiano e dell’altopiano del Deccan), ed è per questo motivo che sarebbe importante monitorare gli apparati idrotermali che generano le correnti: il rilevamento di ogni loro cambiamento di regime potrebbe consentire di stimare con maggiore anticipo la portata idrica della corrente che da essi prende origine, e ciò consentirebbe di allungare considerevolmente i tempi delle previsioni di massima a favore dell’Agricoltura

«Bene!… – dirà qualcuno – Ma qui si parla solo di correnti oceaniche generate dall’attardamento verso Ovest delle acque in risalita dai fondali… Come si spiegano, allora, le correnti che si muovono in tutt’altra direzione, come la Corrente del Golfo, ad esempio, che attraversa l’Atlantico in direzione SO-NE, e la Corrente Circumantartica, che si muove addirittura verso Est sopravanzando la rotazione terrestre?»

Dare una risposta a questa domanda non è difficile, ma richiede un certo spazio: invitiamo pertanto il Lettore a seguirci nell’articolo che segue, dal titolo:  Le correnti oceaniche “secondarie”.


Note

[1] Per comprendere meglio la falsa impressione, che nell’esempio avrebbe il navigante immobile sull’oceano, ricordiamo la sensazione che suscita in noi l’osservazione dell’acqua di un fiume che passa vorticosa sotto il ponte su cui troviamo: la corsa della corrente, infatti, ci dà l’impressione di essere noi in movimento e non l’acqua.

[2] Le attività effusiva ed idrotermale sottomarine non formano un impianto di termoregolazione unico ma, costituendo la via attraverso la quale si scarica all’esterno l’energia termica prodotta in eccesso nelle viscere del pianeta, ciascun apparato funziona in maniera pressoché indipendente dagli altri, cosicché esso può aumentare o diminuire la propria attività senza influire in modo apprezzabile sul funzionamento degli altri. Come vedremo, però, esistono alcuni di tali apparati, situati in zone geografiche particolari, il cui funzionamento più o meno attivo influisce più degli altri sull’andamento complessivo del clima terrestre.

[3] Per non dovere ripetere continuamente l’ingombrante definizione di “cosidetta corrente” o di “acqua risalita dal fondale oceanico” od ancora “acque in attardamento rispetto alla normale velocità di rotazione della superfice del pianete a quella latitudine”,  per comodità da qui in avanti accettiamo di usare il più sbrigativo termine convenzionale di “corrente” anche se non è corretto, così come è puramente convenzionale la voce “si arresta”, perché in realtà, cessato il flusso di acque in attardamento, l’oceano si ricompone in una piatta uniformità termica.

[4] Ho detto “attività che avviene sul fondo degli abissi” a ragion veduta: quando, infatti, l’attività idrotermale sottomarina avviene in prossimità della superfice, data l’insignificante differenza di velocità di rotazione attorno all’asse terrestre fra le due quote, non avviene quasi attardamento, tanto più che, data la sua lieve entità, questo viene facilmente annullato dal trascinamento operato dall’inerzia delle acque circostanti, cosicché praticamente non si forma alcuna corrente.

Clima 3: la scienza nel cassetto

(sintesi di un articolo pubblicato sul Giornale di Vicenza nel 1990)

In certe fasce degli oceani, lungo le linee dei paralleli, si notano dei fenomeni particolari, che finora la Scienza ha potuto solo registrare senza riuscire a darne una spiegazione  soddisfacente o a ricavarne qualcosa di utile.

Ad esempio, nel Pacifico meridionale si nota una notevole diversità fra la temperatura superficiale nella zona occidentale, calda, e quella orientale molto più fresca[1].

Il fenomeno si potrebbe spiegare col movimento di correnti superficiali provenienti dalle latitudini più fredde se ciò non fosse contraddetto dal fatto che, nella zona fresca, l’acqua è ricchissima di sostanze minerali provenienti sicuramente dal fondo dell’oceano.

Mappa delle anomalie termiche superficiali degli oceani (da F. Vercelli: Il mare, i laghi, i ghiacciai)

Mappa delle anomalie termiche superficiali degli oceani (da F. Vercelli: Il mare, i laghi, i ghiacciai)

 

Si presenta quindi un primo paradosso: un enorme flusso di acqua “fresca” (quindi densa e pesante) e carica di sostanze minerali (che la rendono ancora più pesante) sale alla superfice sovvertendo le più elementari leggi della Fisica, e sposta l’acqua calda e leggera che vi staziona da lunghi mesi sotto il cocente Sole dei tropici!

Anche in Atlantico avviene qual-cosa di simile: in questo caso, però, disponiamo di una documentazione maggiore e di più antica data rispetto al Pacifico.

Nella fascia sub-tropicale del nostro oceano, intorno ai 15 gradi di latitudine, si nota che ad Occidente, presso la costa brasiliana, la temperatura superficiale dell’acqua è di circa 25 gradi (fatto normale per quelle latitudini) mentre, in certe aree al largo della costa africana, la temperatura superficiale dell’acqua raggiunge a mala pena i 16 gradi!

Le stranezze, però, non finiscono qui: alla stessa latitudine, infatti, scendendo in profondità le cose si invertono… Così, al largo della costa brasiliana, a mille metri di profondità, l’acqua presenta una temperatura di 2 gradi (fatto normale per quella quota a tutte le latitudini) mentre, al largo della costa africana, alla stessa profondità di mille metri la temperatura dell’acqua è di ben 8 gradi![2]

La sconcertante situazione, che non costituisce un caso unico negli oceani, non ha ricevuto finora alcuna spiegazione da parte della Scienza, la quale si è limitata a prenderne nota e a metterla nel cassetto, forse in attesa di tempi migliori.

Unica spiegazione a questi sconcertanti fenomeni è, a mio avviso, la presenza, sul fondo degli oceani, di enormi sorgenti di calore capaci di azionare immani correnti ascensionali, le quali sconvolgono il normale assetto termico delle acque profonde così come di quelle superficiali, dando origine alle Correnti Oceaniche.

A prima vista, tale spiegazione potrebbe sembrare fantasiosa, e tuttavia, a differenza delle altre teorie scientifiche che si rivelano indimostrabili,  essa è sostenuta da fatti ben precisi, arcinoti alla Scienza e documentati al dilà di ogni possibile dubbio, e questo benché fin’ora nessuno li abbia mai collegati con le anomalie termiche testé descritte e con altri fenomeni che vedremo in seguito[3].

Come sanno bene i Geologi, sul fondo degli oceani esistono vastissime aree interessate da una intensa attività magmatica, che si manifesta con emissioni laviche e sopratutto con estesa attività idrotermale: tali aree, caratterizzate da imponenti rilievi sottomarini di origine vulcanica spaccati da enormi fenditure longitudinali, prendono il nome di “Dorsali Oceaniche” le cui spaccature, larghe anche alcuni chilometri, costituiscono una immensa[4] ragnatela di cicatrici aperte nella crosta terrestre, i cui bordi si allontanano fra di loro di due o tre ma anche di sei o sette centimetri all’anno![5]

All’interno di tali immani crepacci, pur se ricoperto di detriti ribolle il magma incandescente, il quale cede direttamente alle acque soprastanti enormi quantità di vapori saturi di minerali e una incalcolabile quantità di energia termica.[6]

A tale cessione diretta di calore e di vapori, si aggiungono le enormi quantità di vapori incandescenti[7] carichi di minerali ceduti dai sistemi idrotermali attivi sui fianchi delle dorsali, e l’altrettanto imponente cessione di vapori incandescenti e di minerali da parte degli apparati idrotermali attivi in determinate aree sottomarine caratterizzate dalla presenza di grandi raggruppamenti di vulcani[8].

Iniettati a forza nelle acque abissali, quei vapori incandescenti cedono rapidamente calore alle acque profonde, le quali, riscaldate in tal modo ed arricchite di minerali, schizzano a loro volta verso l’alto mescolandosi gradualmente per via con masse crescenti di altre acque, le quali vengono così coinvolte nella risalita fino a formare delle enormi correnti ascensionali che, per la carica di minerali che trascinano con sé, ritengo appropriato definire Risorgive fertili[9].

Rilevamento radar del fondale oceanico del Pacifico meridionale: si noti la fitta frammentazione della crosta oceanica costituita dalle faglie trasformi (parallele fra di loro e trasversali rispetto alla dorsale oceanica costituita da un immenso “vulcano lineare”.

Rilevamento radar del fondale oceanico del Pacifico meridionale: si noti la fitta frammentazione della crosta oceanica costituita dalle faglie trasformi (parallele fra di loro e trasversali rispetto alla dorsale oceanica costituita da un immenso “vulcano lineare”).

Pennacchio di acqua caldissima, carica di minerali, sgorga da una “bocca sorgente calda” (detta anche “fumatore nero”) fotografato sul Rialzo del Pacifico Orientale. (Da D.B. Foster, Woods Hole Oceanographic Institution).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La  cessione di energia termica a masse crescenti d’acqua, però, provoca l’abbassamento della temperatura nella corrente ascensionale (abbiamo visto che gli iniziali 400 gradi diventano solo 8 a mille metri di profondità) [10] tanto che, a contatto con lo strato superficiale dell’oceano riscaldato dal Sole con una media di 25 gradi, la spinta di galleggiamento della parte sommitale della corrente ascensionale viene a cessare.

Continuando però negli abissi l’attività idrotermale che alimenta detta corrente, la risalita di altra acqua è incessante ed inarrestabile cosicché, non potendo emergere in superfice per l’insufficente temperatura residua, essa è costretta a dilagare sotto la calda coltre superficiale.

«E va bene!… – si dirà – ma, pur espandendosi orizzontalmente, come può la corrente ascensionale trasformarsi in una delle grandi correnti che solcano gli oceani

La risposta è semplice, basta prestare un po’ di attenzione all’articolo seguente: Risolto l’enigma delle correnti oceaniche.


Note

[1] Per certe fasce, la differenza può essere anche di nove gradi!

[2]  Da Il Mare, i Laghi, i Ghiacciai, di Francesco Vercelli.

[3] Sembra incredibile la chiusura che esiste fra le diverse branche della Scienza: in questo caso, ad esempio, ho sperimentato a mie spese quanto poco interessino ai Geologi i problemi inerenti al clima e, di contro, l’assoluta indifferenza dei Climatologi nei confronti della Geologia.

[4] Mi è stato rimproverato il troppo frequente uso di aggettivi quali immenso, enorme, immane, i quali esprimono sì l’idea di qualcosa di veramente grande ma non esprimono la reale entità dei valori: ebbene, poiché finora l’entità di tali valori è stata espressa dalla Scienza solo con cifre ipotetiche frutto di calcoli rispettabilissimi ma non ancora scientificamente accertati, ritengo lecito (e più sbrigativo) rivolgermi al Lettore con gli aggettivi in oggetto.

[5]  Da  I vulcani Sottomarini  di Roger Hekinian in Le Scienze n 39.

[6]  Da Le sorgenti calde sul fondo degli oceani, di John Edmon e Karen Von Damm, in Le Scienze, Quaderni n. 39.   È stato calcolato che la quantità di calore disperso negli abissi dall’attività magmatica di tutte le Dorsali Oceaniche sia di un numero annuo di calorie pari circa a 5 x 10 elevato alla diciannovesima potenza, numero enorme, che risultà però pari a solo un decimo del flusso totale di calore proveniente dall’interno della Terra. Tuttavia, se si confronta la superfice totale  del pianeta con l’effettiva superfice occupata dalle crepe delle Dorsali in cui si verifica attività magmatica, il rapporto si inverte in modo clamoroso: infatti, risulta che le Dorsali Oceaniche emettano una quantità di calore, per unità di superfice, superiore di centinaia di volte a quello rilasciato, sempre per unità di superfice, dal resto della crosta terrestre.

[7] Quei vapori sprizzano sul fondo del mare con temperature altissime, spesso superiori ai 400 gradi.

[8] Sul fondo del mar Tirreno, ad esempio, esiste un raggruppamento di oltre cento vulcani attivi.

[9] “Risorgive” perché la loro salita verso la superfice ricorda il percorso compiuto dalle acque che alimentano i “fiumi di risorgiva” e “fertili” per l’esplosione di vita garantita dalla carica minerale che le caratterizza.

[10] Come avviene per tutti i beni, la loro condivisione con masse crescenti di fruitori determina la diminuzione della quota spettante a ciascuno.

Clima 2: alle origini dei fenomeni climatici

(sintesi di alcuni articoli pubblicati sul Giornale di  Vicenza nel 1990)

Grafico della condotta dell’energia solare  (da Il Tempo: come da nota 7)

Grafico della condotta dell’energia solare (da Il Tempo: come da nota 7)

Nell’articolo precedente (CLIMA 1: Cicloni e anticicloni, gli scherzi della pressione atmosferica) abbiamo visto quanto siano determinanti le temperature al suolo sui fenomeni meteorologici e sul clima in generale: allora, forse è in caso di conoscere meglio le cause che influiscono sulle temperature al suolo e, di conseguenza, conoscere meglio i meccanismi attraverso i quali dette temperature condizionano il clima.

Ebbene, innanzitutto occorre ricordare che…  Solo il 15%…  Questa è la quota di energia solare assorbita dall’atmosfera rispetto a tutta quella che il Sole invia sulla Terra!

Il rimanente dell’energia solare viene assorbito dalla superfice del pianeta (il 43%) o viene riflesso e rispedito nello spazio (il 42%)[1]

Di fronte a tali cifre, se si considera l’immensità del volume della atmosfera rispetto all’esiguità dello spessore della superfice terrestre interessata dall’’azione del Sole (solo una quarantina di cm sulla terraferma e solo qualche decina di metri nell’acqua) si deve convenire che l’energia solare trattenuta dall’aria è ben poca cosa![2]  Ed è appunto questo fatto, che rende gli strati inferiori dell’atmosfera così sensibili, direi anzi vulnerabili, rispetto all’influenza termica della superfice del pianeta.

L’energia solare che riscalda la superfice dei mari non riesce a scaldare in profondità, cosicché non possono formarsi movimenti verticali.

L’energia solare che riscalda la superfice dei mari non riesce a scaldare in profondità, cosicché non possono formarsi movimenti verticali.

Poiché l’aria è un fluido al pari dell’acqua, cosicché entrambi gli elementi soggiacciono alle medesime leggi, per meglio capire il discorso si immagini di riscaldare una pentola d’acqua a mezzo di una potente resistenza elettrica posta presso la superfice: il calore della resistenza interesserà maggiormente le acque superficiali e meno quelle profonde, per cui si avrà acqua più calda e quindi espansa e leggera in alto, e più fredda, densa e pesante in basso, in una situazione di perfetto stallo.

L’azione del calore alla base del movimento dei fluidi.

Se, al contrario, ponessimo la pentola d’acqua sopra una sorgente di calore, pur se questa fosse debole come la fiamma di una candela (vedi figura a sinistra), l’energia termica prodotta da questa avvierebbe nell’acqua una corrente ascendente calda che, giunta in superfice, dilagherebbe lateralmente con moto orizzontale sovrapponendosi all’acqua fredda e pesante, la quale verrebbe così risucchiata verso il fondo dando l’avvio ad un rimescolamento in senso verticale[3].

Ebbene, poiché, come abbiamo visto, anche l’aria della nostra atmosfera è soggetta alle leggi che regolano il movimento dei fluidi, a contatto con una superfice del suolo fredda che le sottrae calore essa diventa più densa e pesante, tendendo così a dilagare lateralmente a spese di aria mantenuta meno densa (e perciò più leggera) dal contatto con una superfice calda, la quale le fornisce l’energia termica che la fa espandere, consentendole di salire verso l’alto e di dare origine ad una corrente ascensionale[4].

Dunque, come ormai sappiamo, per individuare e comprendere le cause fondamentali dei movimenti delle masse d’aria che determinano la variabilità dei fenomeni meteorologici e le mutazioni climatiche, non è all’atmosfera che bisogna guardare ma alla superfice della Terra.

Detta superfice viene riscaldata dal Sole secondo due modalità ben diverse: in modo regolarmente decrescente secondo la latitudine[5], come avviene prevalentemente nei mari e negli oceani[6], e in modo estremamente irregolare, pur se a parità di latitudine, in funzione della natura del suolo e degli elementi che lo ricoprono, come avviene di regola sulla terraferma.

Dal “colore dei terreni” si desume la capacità di assorbimento dell’energia solare da parte della superfice del nostro pianeta.

Dal “colore dei terreni” si desume la capacità di assorbimento dell’energia solare da parte della superfice del nostro pianeta.

I vari tipi di terreno, infatti (siano essi scoperti o innevati, terrosi o rocciosi, di colore chiaro o scuro), i diversi tipi di vegetazione (rada o fitta, alberata, di prateria o semidesertica con le relative colorazioni più o meno intense), l’esposizione dei versanti delle montagne e i vari tipi di acqua (dolce, salmastra, salata, limpida o torbida) assorbono l’energia solare in modo estremamente vario, e in modo altrettanto vario la restituiscono all’ambiente sotto forma di calore[7].

L’irregolare distribuzione geografica di queste svariatissime condizioni termiche al suolo determina una enorme variabilità negli scambi energetici fra la superfice del pianeta e la soprastante atmosfera, variabilità a sua volta decisiva nella determinazione dell’intensità e della durata dei fenomeni atmosferici: di tali caratteristiche poi, l’intensità dipende dal più o meno accentuato divario termico fra zone contigue di superfice

Scia d'areo invorticata da una corrente ascensionale.

Scia d’areo invorticata da una corrente ascensionale.

(cosa che si nota maggiormente sulla terraferma anche fra luoghi situati a brevissima distanza l’uno dall’altro, come risulta dalla foto a destra, dove appare la scia di un aereo avviluppata nelle spire di una corrente ascensionale di formazione locale), mentre, come sappiamo, la durata dipende dalla persistenza delle condizioni termiche al suolo su vasta scala, come avviene normalmente sui mari e sugli oceani, grazie alla scorta energetica accumulata dalle acque a causa della maggiore profondità (oltre 40 metri) a cui può giungere la radiazione solare rispetto alla scarsissima  profondità (solo una quarantina di centimetri) della penetrazione solare nella terraferma.

Mentre però, l’influenza delle caratteristiche generali del suolo di terraferma sul clima è in certo qual modo prevedibile grazie alla loro relativa persistenza nel tempo[8] (persistenza che consente l’accumulo di dati, i quali portano alla possibilità di elaborare modelli sempre più affidabili anche in presenza di alterazioni rapide delle condizioni ambientali in quanto le loro conseguenze climatiche sono facilmente immaginabili[9]), l’influenza sul clima delle caratteristiche termiche delle superfici marine ed oceaniche è alterata dall’incostante andamento delle grandi correnti oceaniche, le quali, come vedremo, costituiscono il sistema di termoregolazione del nostro pianeta, correnti la cui portata idrica e termica non è immutabile ma segue imprevedibili modalità e durate avulse in apparenza da ogni regola (talvolta i tempi sono lunghissimi e talaltra anche molto rapidi).

Dunque, per comprendere i capricci del clima non resta che rivolgere la nostra attenzione al sistema di termoregolazione del nostro pianeta costituito dalle Correnti Oceaniche, e ciò per comprenderne il funzionamento e possibilmente anche l’origine.

Contrariamente a quanto si crede comunemente, il Sole non è l’unica fonte di calore per gli oceani: se così fosse, infatti, non esisterebbero le correnti oceaniche, poiché, come vedremo in un prossimo articolo, queste sono provocate dal rimescolamento verticale delle acque, rimescolamento che, come abbiamo visto, il calore del Sole impedirebbe rendendo meno dense (e quindi inaffondabili) le acque superficiali.

E tuttavia, le correnti oceaniche esistono[10] e giocano un ruolo determinante nell’ambito delle condizioni termiche della superfice del pianeta, dunque, per ottenere una concreta possibilità di prevedere con largo anticipo e con elevata attendibilità l’andamento del clima, occorre riuscire a prevedere con altrettanto largo anticipo la loro portata idrica e termica.

A questo proposito, in un mio articolo dal titolo “L’andamento climatico si può prevedere” pubblicato il 31 agosto 1990 sul Giornale di Vicenza, scrivevo: “… se si installasse su tutti gli oceani una catena di stazioni di rilevamento fisse tanto in superfice che in profondità, sarebbe possibile raccogliere i dati statistici necessari a costituire la «memoria» di un nuovo sistema di previsione del tempo che avrebbe caratteristiche di elevatissima precisione sia a breve che a lunga scadenza. … Data la portata delle prospettive, dare un’occhiata al sistema di termoregolazione del nostro pianeta per verificare la fondatezza di queste mie teorie è il minimo che si dovrebbe fare!

Ebbene, dopo avere inviato il mio materiale a quanti Studiosi riuscivo a conoscere (persino al Servizio Meteo dell’Aeronautica di Vicenza ed alla Pontificia Accademia delle Scienze, che accoglie Studiosi da tutto il mondo), ben otto anni dopo la mia pubblicazione giunse finalmente la conferma della mia teoria: il 17 maggio 1998, infatti, nella pagina della Scienza del Corriere della Sera, brillava il titolo “Previsioni meteo fino a sei mesi, i primi tentativi funzionano”.

In quello storico (per me) articolo a firma di Guido Visconti, l’autore raccontava come il “Centro europeo per le previsioni a medio termine (ECMWF)” con sede a Reading, in Gran Bretagna, avesse “elaborato per la prima volta una previsione che va oltre la settimana, spingendosi addirittura fino a sei mesi” e ciò basandosi, oltre che sulle prevedibili condizioni continentali, sopratutto su un “modello dell’oceano messo a punto dall’Istituto di meteorologia Max Planck di Amburgo” a partire dal 1991 (dunque un anno dopo le mie pubblicazioni). “Tali progressi – spiegava l’autore dell’articolo – sono dovuti in larga misura all’installazione nell’oceano tropicale di una rete di misura che è in grado di fornire dati di temperatura dalla superfice dell’oceano fino ad una profondità di 500 metri. Inoltre, molti satelliti sono oggi capaci di misurare con continuità dati oceanici anche nelle regioni più difficilmente accessibili”.

Purtroppo, nelle sue elaborazioni, l’ECMWF sembra non tener conto dei processi geologici che portano alla nascita delle correnti oceaniche (processi che pure ho pubblicato nel 1990), e ciò preclude la possibilità di allungare i tempi delle previsioni meteo di quel tanto che agevolerebbe la lotta contro la fame nel mondo: la conoscenza di quei processi, infatti, potrebbe consentire di guadagnare qualche altro mese nelle previsioni, tanto da permettere la programmazione di buona  parte delle colture agricole stagionali e forse anche di parte di quelle annuali.

Al dilà, dunque, delle contraddittorie e indimostrabili teorie tuttora in corso sull’origine delle correnti oceaniche, nei due prossimi articoli (La scienza nel cassetto e Risolto l’enigma delle correnti oceaniche) andremo ad indagare sulle reali origini di questi fondamentali “fattori del clima”, dal comportamento dei quali dipende il futuro climatico del nostro pianeta.


Note

[1]  Dati tratti da Il Tempo di E. Lehr, R. Willi Burnett ed Herbert S. Zim.

[2] Per comprendere meglio i termini del confronto, occorre tenere ben presente che quel 15% di energia catturata dall’aria va diviso fra l’enormità del volume dell’atmosfera, mentre il 43% si concentra tutto nel sottile spessore superficiale del pianeta. Quanto sia forte il divario fra la temperatura del suolo e quella dell’aria soprastante è eloquentemente illustrato dalle temperature che si possono rilevare nel deserto del Karakum, in Turkmenistan: in pieno giorno, la sabbia può raggiungere i 64 gradi mentre l’aria, pur se riscaldata dal riverbero del suolo, già ad un metro e mezzo di altezza raggiunge solo i 34 gradi.

[3] Tali spostamenti verticali delle masse dei fluidi (siano essi aria od acqua) sono detti moti convettivi.

[4] Il fenomeno è facilmente verificabile soprattutto d’estate in riva al mare: poiché sotto il Sole cocente il terreno si riscalda più velocemente dell’acqua del mare e più velocemente di questa si raffredda dopo il tramonto del Sole, anche l’aria soprastante ne subisce le conseguenze; così, a giorno inoltrato l’aria riscaldata sulla terraferma si espande e, divenendo più leggera, si lascia facilmente scalzare dalla fresca brezza proveniente dal mare mentre, a partire dalla tarda serata, avviene il contrario: la terra si è raffreddata appesantendo così l’aria soprastante e questa cala dall’alto e si espande formando la brezza di terra che va a scalzare l’aria, che è rimasta tiepida e meno pesante stazionando sul mare.

[5] La forza del Sole è più concentrata e più forte nella regione equatoriale, dove essa picchia a perpendicolo, e progressivamente sempre meno intensa alle latitudini più elevate dove, a causa della crescente inclinazione della superfice, i raggi si disperdono su superfici sempre più vaste, e dunque diminuisce la loro capacità di riscaldare l’ambiente.

[6] Ciò a causa della quasi totale uniformità delle caratteristiche fisiche delle superfici marine.

[7] Tanto per fare un esempio, in Israele, è da decenni in uso un sistema estremamente economico per riscaldare l’acqua del bagno: sul tetto della casa viene collocato un grosso serbatoio metallico dipinto di nero (e si sa, il metallo è un ottimo conduttore di calore mentre il nero è il colore che più di tutti cattura l’energia solare) e riempito d’acqua salata (ed è noto che l’acqua salata assorbe più calore di quella dolce e lo disperde più lentamente) al cui interno scorre la serpentina del tubo che porta l’acqua da bagno, la quale così si riscalda senza l’uso di combustibili.

[8]  Benché la copertura del suolo (sia essa di foresta, savana, prateria o campagna diligentemente lavorata) sia in continua evoluzione, in condizioni normali i suoi cambiamenti non avvengono mai da un giorno all’altro. Un esempio significativo di tale cambiamento nel tempo è dato dalla costruzione della grande diga sul Nilo, che richiese vari anni per riempire l’invaso che forma all’immenso bacino del Lago Nasser, in Egitto, il cui impatto sul clima regionale è noto.

[9] È questo il caso degli incendi di estensione continentale, che mutano in pochi giorni il tipo di copertura del suolo ed il relativo colore, sulla cui interazione termica suolo-atmosfera è tuttavia possibile fare previsioni attendibili.

[10]  Che su certi percorsi oceanici esistessero dei fenomeni, che abbreviavano i tempi di navigazione in un senso e li allungavano sensibilmente nel senso contrario, come se la navigazione avvenisse col favore della corrente o contro di essa come sui fiumi, era cosa nota da tempo, tanto che nel Nordatlantico, sulle linee tra Regno Unito e Nordamerica, nella navigazione verso Ovest  i mercantili seguivano una rotta notevolmente più meridionale rispetto a quella di ritorno verso Est, rotte la cui conoscenza consentì a Benjamin Franklin di tracciare la prima mappa di una corrente oceanica: la Corrente del Golfo, che tanta benefica influenza esercita sulle regioni nordoccidentali dell’Europa.

El Niňo e la morte dei coralli

Fg. 1: Le barriere coralline, che prosperano in acque pulite e ricche di nutrienti, ospitano una varietà infinita di organismi meravigliosi.

Fg. 1: Le barriere coralline, che prosperano in acque pulite e ricche di nutrienti, ospitano una varietà infinita di organismi meravigliosi..

L’idea che, a provocare la Morte dei Coralli, sia l’aumento della temperatura delle acque causato dal famigerato Riscaldamento Globale, è ormai accettata universalmente, tanto che la si trova riportata nero su bianco in tutti i testi più recenti di Geografia Fisica.

In detti lavori, però, la spiegazione dei fenomeni appare alquanto nebulosa e talvolta contraddittoria, quasi che, intuendo forse l’inconsistenza della teoria, gli Autori si sentano tuttavia obbligati a sostenerla in qualche modo poiché essa è la sola accettata universalmente(1).
A suffragio di detta teoria, vari Autori portano l’esempio della nefasta influenza, che i coralli subirebbero dall’avvento del fenomeno detto El Niño(2) combinato con l’ENSO (l’Oscillazione della pressione atmosferica nell’area centro-meridionale del Pacifico), e lo fanno con date precise e col nome di luoghi in cui sono avvenuti lo sbiancamento e la morìa dei polipi corallini.
Uno di quei casi sarebbe avvenuto nei mesi a cavallo degli anni 1982-83, quando, oltre a violenti sconvolgimenti climatici in tutto il globo definiti i più disastrosi in epoca storica, ed oltre ad estese morìe di pesci e uccelli, El Niño avrebbe causato lo sbiancamento e la morte dei coralli fin lungo le isole dell’Oceano Indiano, e tutto ciò spingendo, su una fascia del Pacifico equatoriale lunga 12.800 Km, una vasta ondata di acqua calda con temperature fino a 8°C superiori a quelle normali!
E allora viene da chiedersi: “Ma quelle temperature definite “normali” sono veramente normali?”
Una situazione simile a quella, che abitualmente avviene nel Pacifico in assenza del Niño, si verifica anche nell’Atlantico dove, proprio in corrispondenza del percorso della Corrente Equatoriale, la temperatura superficiale dell’oceano presenta una diversità di ben 9 gradi fra quella fresca rilevata abitualmente nella parte Est dell’oceano (appena 16 gradi) rispetto a quella calda rilevata ad Ovest (25 gradi), e ciò fa pensare che i due fenomeni, così simili, non siano dovuti ad una fortuita coincidenza…
E dunque viene da chiedersi: quale sarebbe la temperatura da ritenere normale per quelle aree dei due oceani interessate da quei fenomeni?… È la temperatura più fresca rilevata ad Est oppure è quella più calda ad Ovest?
Per rispondere alla domanda, occorre ricordare che le temperature superficiali degli oceani sono spesso alterate dal rimescolamento delle acque prodotto dalle correnti, cosicché, per avere una risposta credibile, bisogna confrontare le temperature in oggetto con quelle rilevabili nei bacini marini non disturbati dalle correnti: ebbene, in area tropicale, detti tranquilli bacini presentano valori di temperatura superficiale compresi fra i 26 e i 28 gradi.
Dunque, appare evidente che, nella fascia tropicale, le temperature da considerare normali sono sicuramente quelle più alte!… Pertanto, se nel settore Est della fascia tropicale del Pacifico, la temperatura delle acque è abitualmente inferiore a quella che normalmente dovrebbe essere sotto l’azione del Sole, è evidente che è tale situazione che costituisce una anomalia termica, benché essa sia un fatto abituale, mentre il ritorno alla temperatura più calda col Niño costituisce un ritorno alla normalità, benché esso sia un evento temporaneo.
Di tutto questo, però, sembra che gli Studiosi non si rendano conto…

Fg. 2  Nella fascia tropicale dell’oceano Pacifico è evidenziata con due tonalità di rosa l’area interessata da El Niño, il fenomeno oceanico considerato una dannosa corrente calda.

Fg. 2 Nella fascia tropicale dell’oceano Pacifico è evidenziata con due tonalità di rosa l’area interessata da El Niño, il fenomeno oceanico considerato una dannosa corrente calda.

L’equivoco nasce dal fatto che, considerando normale lo stato abituale delle temperature superficiali degli oceani rilevate mediante i satelliti, appena questo stato si modifica, viene considerato una anomalia. E ciò benché le acque del Niño raggiungano i 28 gradi, che costituiscono la temperatura normale per quella latitudine quando l’area non è disturbata dalla “fertile” e fresca Corrente Equatoriale (la cui temperatura iniziale è abitualmente di soli 18-19 gradi)..
In tal modo, essi rappresentano con un medesimo tono di colore le diverse situazioni termiche abitualmente presenti nel Pacifico (si veda, nella figura 2, l’omogenea tonalità azzurrina che ricopre tutti gli oceani non evidenziando le innegabili diversità di temperatura rilevate dalle isoterme nella figura 3) diversità dovute alla varia inclinazione dei raggi solari sulla superfice oceanica alle diverse latitudini, ed evidenziano invece con varie gradazioni di rosso il saltuario ritorno della normalità termica dovuta al Niño nella fascia tropicale del Pacifico, producendo così la fuorviante impressione di un surriscaldamento abnorme della medesima area, impressione, alla cui suggestione sembra che gli inconsapevoli Studiosi non sappiano sottrarsi, tanto che nessuno di essi si chiede mai: “Ma surriscaldamento dovuto a cosa, se nei diversi settori della superfice oceanica posti alla medesima latitudine, il Sole picchia con la stessa intensità?

fg. 3  Le diverse temperature della superfice degli oceani sono perfettamente note alla Scienza e accuratamente mappata: perché, allora, non vengono evidenziate con tonalità diverse di colore in modo da non ingenerare equivoci e inammissibili fraintendimenti?

fg. 3 Le diverse temperature della superfice degli oceani sono perfettamente note alla Scienza e accuratamente mappata: perché, allora, non vengono evidenziate con tonalità diverse di colore in modo da non ingenerare equivoci e inammissibili fraintendimenti?

Anche su internet troviamo che uno Studioso di una prestigiosa Università americana(2) attribuisce allo stesso episodio del Niño del 1998, la moria di coralli che colpì l’arcipelago delle Maldive e molte altre aree dell’Oceano Indiano.
Ebbene, tale ipotesi sembra alquanto azzardata, poiché, oltre alla sterminata distanza esistente fra le isole dell’Oceano Indiano e l’area di origine del Niño, lo stesso oceano è separato dal Pacifico dalla possente barriera costituita dagli arcipelaghi delle Filippine e dell’Indonesia; dunque, appare verosimile che la moria di coralli negli arcipelaghi indiani sia una semplice coincidenza con l’avvento del Niño nel Pacifico, coincidenza dovuta a cause locali prodotte dal fatto, che anche quelle isole dell’oceano Indiano sono di origine vulcanica, così come i menzionati arcipelaghi indonesiano e filippino che le proteggono dalle correnti del Pacifico, i quali sono entrambi ricchissimi di vulcani attivi fra i più temibili al mondo(3) .
Quanto sia confusa quella teoria è suggerito da ciò che scrivono altri Autori, i quali, sostenendo la medesima tesi circa l’influenza del Niño sulla decadenza vitale dei coralli, riguardo alla connessione fra El Niño ed ENSO dicono però che: «Sebbene la connessione non fosse sempre rilevabile, tutti questi avvenimenti furono attribuiti alla combinazione El Niño/ENSO»… Dunque, la mancata rilevazione di detta connessione lascia intendere che l’attribuzione di colpa a El Niño è quantomeno arbitraria, frutto di opinioni personali non suffragate da prove scientifiche.

Fg. 4  Ipotesi ufficiale del fenomeno del Niño.

Ma quale potrebbe essere la causa che dà origine al Niño? Da molti anni, l’ipotesi prevalente sembra essere quella che incomprensibilmente indica i colpevoli nei venti Alisei (fg. 4 sopra) i quali, scavalcando da est la Catena Andina dell’Equador e del Perù, produrrebbero ad Ovest di queste una sorta di vuoto simile a quello che si forma dietro le automobili veloci, vuoto che risucchierebbe verso la superfice acque abissali fredde e ricche di nutrienti minerali, le quali, spinte verso Ovest dalla persistente azione degli Alisei, darebbero origine alla fresca e fertilissima Corrente Equatoriale del Pacifico, quella che i pescatori equadoregni e peruviani chiamano La Niña…
Quando, dunque, per qualche motivo gli Alisei cessano di soffiare, ad ovest delle Ande non si formerebbe più il vuoto e questo non richiamerebbe più in superfice le fresche e fertili acque abissali che formano la Niña…
Già il fatto che agli Alisei sia attribuita la capacità di produrre, ad Ovest delle Ande, una depressione tale da risucchiare verso la superfice oceanica le fredde acque abissali (pesanti per l’alto contenuto di sali minerali) è una cosa che lascia perplessi: con una velocità media di 5 metri a secondo, infatti, velocità pari a circa 18 Km orari, difficilmente gli Alisei avrebbero la forza di produrre la straordinaria depressione che viene loro attribuita, spece considerando che il loro fronte di azione è diviso dalla larga fascia definita equatore termico, al cui interno gli Alisei si riducono a deboli brezze o addirittura cessano del tutto.
Ma poi, se fossero gli Alisei il motore che forma la Niña e la spinge verso Ovest, quale dovrebbe essere la forza che darebbe origine a quella che è definita la “vasta ondata di acqua calda che, inoltrandosi nel Pacifico equatoriale“ formerebbe El Niño? Certamente, non la forza di venti occidentali contrari agli Alisei, perché quei venti si muoverebbero in direzione opposta a quella attribuita al Niño, e dunque? La domanda sembrerebbe destinata a non avere risposta!

Fg 5 Si noti l'alta concentrazione di vulcani fra Galapagos, Equador e Perù.

Fg 5 Si noti l’alta concentrazione di vulcani fra Galapagos, Equador e Perù.

C’è anche un’altra domanda che richiede una spiegazione seria: poiché l’imponente Cordigliera delle Ande costeggia tutta la sponda sud-americana del Pacifico, perché mai solo in corrispondenza della costa equadoregna e peruviana si verificano i fenomeni detti el Niño e la Niña?… Cosa c’è su quel limitato tratto di costa che non esiste su tutto il resto della sponda sudamericana del Pacifico?

La risposta è semplice: lungo quella costa, c’è una straordinaria concentrazione di grandi vulcani attivi (tanto che sulle Ande equadoregne se ne contano più di 50) e i vulcani sono numerosi anche al largo di essa, in corrispondenza del vicino Arcipelago delle Galapagos.
Ebbene, alla base di quelle due estese concentrazioni vulcaniche è abitualmente attivo un vastissimo apparato idrotermale, il quale vomita negli abissi acque caldissime arricchite di nutrienti minerali.
Data la loro altissima temperatura iniziale (intorno ai 400°), quelle acque schizzano verso l’alto disperdendo per via calore e nutrienti, coinvolgendo così nella risalita masse crescenti di altra acqua fertilizzata, la cui temperatura però decresce in proporzione inversa al loro volume, cosicché alla fine esse presentano una temperatura inferiore rispetto a quella delle acque superficiali riscaldate dal Sole: attardandosi però per inerzia rispetto alla rotazione terrestre, le fertili acque risalite dagli abissi scorrono sotto le calde acque superficiali, alle quali si mescolano poi per attrito abbassandone la temperatura e trascinandole con sè verso Ovest.

Fg 6  Il Plancton costituisce la delicatissima base su cui poggia tutta la catena alimentare marina: nell'acqua "fertile", il fitoplancton trasforma i nutrienti minerali in sospensione nella sostanza organica di cui si nutre lo zooplancton, ed entrambi forniscono, direttamente o indirettamente, il cibo a tutti gli animali superiori, dal pesciolino più piccolo al più grande predatore... E tutto grazie ai nutrienti minerali trasportati in giro fra mari ed oceani dalle acque "iniettate" negli abissi dai comprensori idrotermale "attivi" collegati ai grandi apparati vulcanici sottomarini o prossimi alle coste.

Fg. 6 Il Plancton costituisce la delicatissima base su cui poggia tutta la catena alimentare marina: nell’acqua “fertile”, il fitoplancton trasforma i nutrienti minerali in sospensione nella sostanza organica di cui si nutre lo zooplancton, ed entrambi forniscono, direttamente o indirettamente, il cibo a tutti gli animali superiori, dal pesciolino più piccolo al più grande predatore… E tutto grazie ai nutrienti minerali trasportati in giro fra mari ed oceani dalle acque “iniettate” negli abissi dai comprensori idrotermale “attivi” collegati ai grandi apparati vulcanici sottomarini o prossimi alle coste.

Risalendo verso la superfice, infatti, le acque abissali si allontanano dall’asse di rotazione terrestre, trovandosi così a dover percorrere nelle 24 ore circonferenze sempre più lunghe rispetto a quella che percorrevano sul fondo degli abissi e questo, tendendo esse a mantenere per inerzia la velocità di rotazione iniziale(4), ne provoca un progressivo attardamento rispetto all’ambiente circostante… Ed è così che ha origine la Niña, la corrente fresca portatrice di vita rigogliosa per le creature del mare e prosperità per la locale industria della pesca.
Dunque, il Vero Motore di questa come di altre Correnti Oceaniche non è costituito dai venti dominanti o da altre fantasiose cause, ma è l’attardamento per inerzia verso ovest delle acque abissali in risalita dal fondo degli oceani!

Quando tuttavia, alla base della su menzionata concentrazione di vulcani, avviene una forte riduzione o addirittura una cessazione dell’attività idrotermale(5), si riduce fortemente o addirittura cessa anche la risalita dagli abissi dell’acqua fertile, cosicché, rimanendo immobile sotto il Sole dei Tropici, la superfice dell’oceano viene riscaldata fino a riportarne la temperatura ai livelli naturali per quella latitudine, mentre la carenza o la mancanza di nutrienti in risalita dal fondo semina strage nell’ambiente sommerso, provocando apocalittiche morìe del plancton, dei pesci che di esso si nutrono e di quelli di cui gli stessi sono preda, e poi degli uccelli che dei pesci si cibano e, infine, anche dei coralli i quali, pur se situati lontanissimi dall’area da cui hanno origine le acque fertili, non ricevendo più il consueto nutrimento deperiscono sbiancandosi per morire poi d’inedia.
Dunque, la vera causa di questa immane tragedia è la stasi delle grandi emissioni idrotermali da parte dei comprensori vulcanici peruviano, equadoregno e delle Galapagos, stasi a cui consegue l’immobilità delle acque evidenziata dal riscaldamento solare della loro superfice: e nasce El Niño!

Note

1 Un comportamento simile da parte degli Studiosi è stato notato anni fa, subito dopo che due noti scienziati dettero al mondo il sensazionale annuncio della realizzazione della “fusione a freddo”: subito, infatti, numerosi loro colleghi vollero ripetere l’esperimento secondo le modalità indicate dagli eroi del momento, e molti di loro riferirono esultanti di esserci riusciti. Dopo qualche tempo, però, essendo stato accertato da Istituti Scientifici seri, che l’esperimento non funzionava, sull’intera faccenda scese il silenzio, e molti sperarono che tutto finisse nell’oblio.

2 Fra tanti altri, tale argomento è riportato anche in un ponderoso volume pubblicato nel 2002 da un paio di Autori di Area anglosassone, Area dalla quale, si sa, provengono le teorie più varie, le quali di regola, dal Mondo Scientifico internazionale vengono accolte con ossequio-sa reverenza, come fossero rivelazioni ispirate dal Celo (e la Scienza italiana non fà eccezione). (NB: non cito mai il nome degli Autori dalle cui teorie dissento per correttezza nei loro confronti, affinché non si sentano attaccati personalmente senza che su queste pagine possa essere loro garantito il diritto di replica).

3 Sulla fondamentale importanza degli apparati vulcanici (spece quelli sottomarini) nella genesi delle correnti oceaniche abbiamo già parlato in altri articoli, comunque, riparleremo della cosa anche in questo.

4 Ovviamente, dovendo muoversi in acque dotate di velocità di rotazione crescente man mano che risalgono dall’abisso, le acque di origine idrotermale ne subiscono in parte il trascinamento, cosicché, giunte alla superfice, esse non conservano la loro bassa andatura iniziale ma sono un po’ meno lente, ed è questa loro lentezza che le fa apparentemente muovere verso Ovest!

5 È possibile che quella riduzione dell’attività idrotermale sia provocata da un forte calo della pressione interna all’apparato vulcanico, calo dovuto verosimilmente allo sfogo della stessa pressione prodotto da qualche prolungata eruzione (sia essa sub-aerea o sottomarina) che si verifica in zona. Questa ipotesi, lo dico per i Professionisti della Ricerca scientifica, meriterebbe una attenta verifica da parte dei Vulcanologi, ai quali non dovrebbe risultare difficile individuare, in quell’area, l’eventuale evenienza di eruzioni vulcaniche (siano esse subaeree o sottomarine) nell’immediata precedenza e in concomitanza con l’avvento del Niño.

La morte dei coralli

Esempi di coralli

Fg. 1 Una barriera corallina in salute presenta una fittissima e straordinaria varietà di forme viventi, le quali la rendono tanto meravigliosa da non temere confronti con qualsiasi altro luogo della Terra

In un documentario (inglese?) dal titolo OCEANI (messo in onda da RAI 5 l’8 gennaio 2015), durante una spedizione di studio nel Mar Rosso meridionale, due scienziati (un uomo e una donna) si immergono in profondità fra le pareti del baratro tettonico che separa la placca continentale africana da quella araba.
Entrando nella zona più angusta di una profonda spaccatura, larga forse solo tre metri, essi vi rilevano una temperatura dell’acqua straordinariamente elevata, intorno a 34 gradi C., temperatura che, secondo l’opinione corrente della Scienza, dovrebbe causare la morte dei coralli della zona poiché, in tutte le barriere coralline in cui si verifica lo sbiancamento dei coralli seguito dalla loro morte, l’ambiente è caratterizzato dall’innalzamento della temperatura delle acque attribuito, neanche a dirlo, dal famigerato Riscaldamento Globale.
Secondo la Scienza infatti, provocando l’innalzamento delle temperature degli oceani, il Riscaldamento Globale ucciderebbe le microalghe simbiotiche dei coralli che, grazie alla fotosintesi clorofilliana, producono il nutrimento dei polipi corallini, i quali, con la loro scomparsa, prima perderebbero il colore e poi morirebbero d’inedia.
Ebbene, con somma meraviglia dei due scienziati del documentario, nell’area calda da essi esplorata i coralli sono invece in pieno rigoglio, tanto che di notte, esposti alla luce ultravioletta, essi risplendono meravigliosamente per la loro fluorescenza.
Come si spiega tale contraddizione ai dettami della Scienza?
Un tentativo di risposta viene suggerita dagli stessi due studiosi, che riportano quanto sostiene la teoria di non so quale rispettabilissimo scienziato, secondo il quale sarebbe la fluorescenza che, proteggendo in qualche modo le microalghe dalla forza letale del Sole, ne garantirebbe la salute anche in ambiente avverso, consentendo in tal modo anche la sopravvivenza dei polipi del corallo.
Sarà!… Ma le cose stanno veramente così?…
In realtà, infatti:

emissioni di vapore ad altissima temperatura da uno "sfiato" idrotermale alla base di un comprensorio vulcanico abissale. La densità ed il colore del getto lasciano facilmente intendere quanto forte sia la carica di composti minerali che donano elevata fertilità alle acque in risalita dal fondo (a destra), fertilità che garantisce un'elevatissima capacità di sostentamento della flora e della fauna nell'area marina interessata dal fenomeno.

Fg. 2 emissioni di vapore ad altissima temperatura da uno “sfiato” idrotermale alla base di un comprensorio vulcanico abissale. La densità ed il colore del getto lasciano facilmente intendere quanto forte sia la carica di composti minerali che donano elevata fertilità alle acque in risalita dal fondo. 

1- La fluorescenza delle microalghe è prodotta dall’assorbimento da parte loro di elementi radioattivi di origine magmatica immessi nelle profondità delle barriere coralline dall’attività idrotermale in atto nelle spaccature tettoniche e negli apparati vulcanici sottomarini.
2- Di norma, risalendo dalle spaccature tettoniche attive, dove è stata surriscaldata dal contatto col magma e resa fertile per i minerali che da esso riceve, l’acqua profonda si raffredda per via cedendo calore a masse crescenti di altra acqua che coinvolge nella risalita, cosicché in superfice giunge una quantità d’acqua enormemente superiore a quella iniziale, la cui temperatura, tuttavia, risulta inferiore a quella delle acque superficiali riscaldate dal Sole, con le quali poi essa si mescola per attrito rinfrescandole…
Ed è appunto da tale meccanismo che deriva la temperatura mite delle acque nelle zone di barriera.

La carica di composti minerali espulsi dai sistemi idrotermali sottomarini donano elevata fertilità alle acque in risalita dal fondo garantendo  un'elevatissima  capacità di sostentamento della flora e della fauna nell'area marina interessata dal fenomeno.

Fg 3 La carica di composti minerali espulsi dai sistemi idrotermali sottomarini donano elevata fertilità alle acque in risalita dal fondo garantendo un’elevatissima capacità di sostentamento della flora e della fauna nell’area marina interessata dal fenomeno.

3- Quando però, l’attività magmatica profonda si attenua o ristagna, diminuisce o addirittura cessa anche la risalita delle acque fertili profonde, cosicché, mancando la loro presenza rinfrescante, le acque di superfice riacquistano la temperatura elevata dovuta al riscaldamento da parte del Sole dei tropici: temperatura elevata, dunque, che non è la causa del deperimento dei coralli ma costituisce il segnale, che qualcosa è cambiato nel sistema nutrizionale della zona.
Dunque, che garantisce la salute e la proliferazione dei coralli è la carica di nutrienti minerali trasportati verso la superfice dalle acque fertili risalenti dal fondo, nutrienti che, favorendo la vita del fitoplancton e delle microalghe che vivono in simbiosi coi coralli, consentono il meraviglioso sviluppo di vita vegetale ed animale che caratterizza le barriere coralline.
Pertanto, è possibile affermare che il deperimento dei coralli in determinate aree di barriera degli oceani NON DIPENDE DAL RISCALDAMENTO GLOBALE, ma è dovuto alla penuria di nutrienti minerali causata dalla minore risalita dal fondo di acque fertili dovuta al rallentamento (quando non addirittura alla stagnazione) dell’attività idrotermale collegata alla presenza più o meno vivace di attività magmatica all’interno delle spaccature tettoniche e degli apparati vulcanici sottomarini.
Tutti questi discorsi, però, sembrerebbero contraddetti dalla elevata temperatura ambientale rilevata dai due scienziati all’interno dell’immane spaccatura della crosta all’estremo sud del Mar Rosso: infatti – si dirà – poiché, come abbiamo visto, cedendo calore per via, l’acqua di origine profonda si raffredda abbassando poi la temperatura delle acque superficiali riscaldate dal Sole, se la temperatura dell’acqua riscontrata dai due studiosi è così elevata, ciò dovrebbe significare che c’è scarsa risalita di acque fertili dal fondo del mare, cosicché i coralli dovrebbero essere in agonia. Come si spiega, invece, il loro straordinario rigoglio?
La risposta è facile ed è data dall’angustia dell’ambiente in cui è stata rilevata l’anomalia termica: la ristrettezza del baratro tettonico, infatti, limita il rimescolamento dell’acqua fertile in risalita dagli abissi con le fredde acque stazionanti nelle circostanti profondità marine, cosicché detta acqua fertile può conservare una maggiore quantità della carica termica iniziale, e ciò spiega l’elevata temperatura riscontrata dagli studiosi al livello della barriera corallina…

Fg 4 L'angustia del baratro, attraverso il quale le calde acque di origine idrotermale salgono verso la superfice, consente un minore rimescolamento delle acque stesse con quelle fredde stazionanti nelle profondità, cosicché esse possono raggiungere la barriera corallina conservando una maggiore quantità di calore ed una maggiore concentrazione di nutrienti minerali.  (in primo piano, le apparecchiature di rilevamento di un minisommergibile teleguidato).

Fg. 4 L’angustia del baratro, attraverso il quale le calde acque di origine idrotermale salgono verso la superfice, consente un minore rimescolamento delle acque stesse con quelle fredde stazionanti nelle profondità, cosicché esse possono raggiungere la barriera corallina conservando una maggiore quantità di calore ed una maggiore concentrazione di nutrienti minerali.
(in primo piano, le apparecchiature di rilevamento di un minisommergibile teleguidato).

Ma non solo: infatti, il limitato rimescolamento delle acque limita anche la diluizione della carica dei nutrienti minerali di provenienza abissale da esse trasportati verso la superfice, nutrienti, la cui maggiore concentrazione favorisce appunto lo straordinario rigoglio dei coralli evidenziato nel documentario, inoltre, il loro più concentrato contenuto di elementi radioattivi di origine magmatica, assorbito con gli altri nutrienti dalle microalghe, ne impregna i tessuti, dando così ragione della straordinaria e splendida fluorescenza dei coralli alla luce ultravioletta, che tanto ha meravigliato i due studiosi in immersione lungo la barriera corallina all’estremità meridionale del Mar Rosso!

Clima 1: cicloni e anticloni, gli scherzi della pressione atmosferica

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Vortice sul mediterraneo occidentale

Da molti mesi ormai (siamo a fine maggio del 2014) il tempo fa le bizze in modo incontrollato, sferzando l’Europa con una sequenza interminabile di perturbazioni, che si susseguono con una media di una ogni tre giorni.
E si ha un bel dire che le vaste aree di alta pressione, che si presentano fra una perturbazione e l’altra, dovrebbero stabilizzare il tempo o, quanto meno, frenare l’avanzata del maltempo verso le nostre regioni: rapidamente come si sono formate, quelle aree di stabilità si dissolvono vigliaccamente senza opporre resistenza.
A fronte di tale situazione, viene spontaneo il raffronto col clima straordinariamente mite e asciutto dell’autunno-inverno e della primavera di qualche anno fa, quando, per dare un po’ di speranza al mondo dell’agricoltura in grande allarme per il persistere della siccità invernale e primaverile, i meteorologi mostravano le grandi perturbazioni atlantiche, le quali si avventavano sull’Europa cariche di promesse di pioggia per le nostre regioni, ma che, giunte in vista delle coste mediterranee, viravano sgommando a Nord-Est respinte da una vasta area di alta pressione saldamente ancorata sul mar Tirreno.
E viene spontaneo anche il ricordo della storica e interminabile calura del 2003, la quale oppresse le nostre regioni con temperature insopportabili ed una siccità senza fine provocata da una vasta e robustissima “bolla” di alta pressione che, ancorata sul Tirreno, dominava sul Mediterraneo.
Ma allora, si dirà, per quale motivo quest’anno l’alta pressione non riesce a bloccare il maltempo per restituirci un clima più equilibrato?

ciclone2

Si noti l’immane vortice che interessa tutto il Nord Atlantico: il fatto che sia stabilmente “ancorato” lungo il corso della Corrente del Golfo in un’area poco a sud dell’Islanda ci attesta che si tratta di una “depressione madre”.

Benché non se ne senta mai parlare, la risposta a tale legittima domanda non è difficile ma richiede un po’ di attenzione, poiché si basa su una classificazione delle aree di alta pressione riferita alle diverse modalità che portano alla formazione di dette aree, modalità che determinano la loro resistenza o la loro vulnerabilità rispetto alle perturbazioni.
Contrariamente a quanto affermano i sostenitori della teoria sull’effetto serra, alla base di tutto il meccanismo del clima c’è la temperatura del suolo (cioè della superfice del pianeta, sia essa di terraferma o di mare) temperatura che, se è elevata, provoca il riscaldamento dell’aria soprastante determinandone la dilatazione con conseguente spinta verso l’alto: tale meccanismo, infatti, dà origine tanto ai semplici mulinelli d’aria quanto ai più terrificanti uragani .
In determinati casi, però, quando le condizioni di temperatura sono “ancorate” ad una determinata area geografica, il fenomeno dà origine ad una depressione non violentissima ma molto estesa che, con un’immagine colorata, potremmo definire “depressione madre”, perché dà origine ad una serie continua di vortici ciclonici, i quali si dirigono ad est andando ad investire i territori continentali, sui quali scaricano a ritmo incalzante la loro energia sotto forma di tempeste di vento e di precipitazioni copiose, proprio come avviene da mesi in Europa ad opera della Depressione d’Islanda.
Al contrario, se la superfice al suolo è fredda, anche l’aria soprastante si raffredda, cosicché essa si addensa e, divenendo pesante, si abbassa verso il suolo dilagando poi lateralmente.
Di conseguenza, la discesa di tale massa d’aria risucchia verso il basso l’aria soprastante, dando così origine ad un ampio movimento discendente caratterizzato da una rotazione in senso orario[1], che possiamo immaginare come un enorme gorgo atmosferico[2], gorgo definito dai tecnici “vortice anticiclonico” perché, essendo formato da aria asciutta[3], è in grado di fagocitare o di respingere le perturbazioni.
Ebbene, l’efficacia di tale gorgo anticiclonico è dovuta al fatto che esso è ancorato alla superfice “fredda” che lo ha originato, la quale è in grado di mantenerlo attivo a tempo indeterminato, consentendogli, appunto, di esercitare la sua azione stabilizzatrice anticiclonica per tutto il tempo in cui essa rimane “fredda” (come avviene nel caso dell’Anticiclone delle Azzorre).
Con l’aumento della pressione atmosferica e col conseguente riscaldamento (fenomeni dovuti entrambi alla compressione che avviene nel corso della discesa nel gorgo) l’aria secca proveniente dalle alte quote assume una crescente capacità di assorbire umidità, capacità che le consente di fagocitare le perturbazioni che le si avvicinano sottraendo loro l’umidità delle nubi così da mantenere il sereno; oppure, addirittura, quando il gorgo anticiclonico è veramente potente, la spinta dilagante delle sue masse d’aria riesce a respingere l’avanzata delle perturbazioni costringendole a cambiare la direzione della loro corsa, esattamente come avveniva nei lunghi periodi siccitosi descritti all’inizio.
Ebbene, si dirà, perché non avviene così anche ai nostri giorni? Cosa rende tanto deboli e fugaci i cosidetti “promontori di alta pressione” che si alternano con l’interminabile sequenza delle perturbazioni che ci affliggono da mesi?

Foto da satellite del 22 agosto 2011: si noti la vasta area priva di nubi che interessa tutto il bacino del Mediterraneo mentre le perturbazioni di origine atlantica sono costrette a scorrere a nord delle Alpi, e si noti il vortice situato sul Golfo di Biscaglia, la cui “coda”, penetrata nel Mediterraneo occidentale (la leggera fila di nubi orientata N-S) si sta dissolvendo assorbita dal “gorgo” anticiclonico ancorato sul mar Tirreno, la cui azione stabilizzante si estende ad Oriente grazie ai venti dominanti.

Foto da satellite del 22 agosto 2011: si noti la vasta area priva di nubi che interessa tutto il bacino del Mediterraneo mentre le perturbazioni di origine atlantica sono costrette a scorrere a nord delle Alpi, e si noti il vortice situato sul Golfo di Biscaglia, la cui “coda”, penetrata nel Mediterraneo occidentale (la leggera fila di nubi orientata N-S) si sta dissolvendo assorbita dal “gorgo” anticiclonico ancorato sul mar Tirreno, la cui azione stabilizzante si estende ad Oriente grazie ai venti dominanti.

Quella Cosa è il fatto che i “promontori di alta pressione” non sono “ancorati al suolo” come i gorghi anticiclonici generati dalla bassa temperatura superficiale di determinate aree geografiche, ma sono generati dall’espansione dell’aria asciutta dilagante dai margini di un ampio anticlone e  risucchiata ad opera dei vortici ciclonici attivi nelle vicinanze, tant’è vero, che essi non si producono mai come fenomeni autonomi ma (come suggerisce il nome promontorio) costituiscono sempre una propaggine di un gorgo vero e proprio situato nelle vicinanze; inoltre, la pressione atmosferica al loro interno non è mai molto elevata o, comunque, non raggiunge mai livelli paragonabili a quelli che si possono verificare nel cuore del gorgo che li alimenta: dunque, benché portino condizioni di bel tempo, non essendo ancorati all’area geografica in cui si formano, i promontori di alta pressione vengono trascinati in qua o in là dal risucchio generato dagli spostamenti dei vortici ciclonici.
Dunque, l’azione stabilizzatrice sul clima da parte delle aree anticloniche è condizionata dalla loro genesi, cosicché si ha:

  • alta efficacia e lunga persistenza da parte dei gorghi anticlonici ancorati all’area geografica che, con le basse temperature al suolo, li genera e li mantiene attivi[1].
  • scarsa efficacia, breve durata e mobilità dei promontori di alta pressione (costituiti da aria asciutta proveniente da lontano) attirati dal risucchio prodotto da potenti vortici ciclonici in movimento.

A questo punto, qualcuno si chiederà da cosa dipenda il “raffreddamento al suolo” delle aree geografiche in cui si formano i gorghi anticiclonici più potenti e persistenti.
Ebbene, poiché la risposta a tale quesito richiede un lungo discorso, invito il Lettore a leggere gli articoli che seguono, a partire da quello che porta il titolo Alle origini dei fenomeni climatici.


 

Note

1) Oltre all’innesco iniziale del vortice prodotto dal calore ricevuto al suolo, a determinare l’ingrossamento del vortice stesso fino alle grandi dimensioni è l’energia termica rilasciata nell’aria dall’umidità in essa contenuta, umidità che condensa cedendo calore a causa della progressiva diminuzione della pressione atmosferica dovuta alla risalita in quota.
Ed è appunto tale capacità di autoalimentarsi, che consente agli uragani di muoversi poi in modo indipendente dalle condizioni di temperatura al suolo.2) L’attuale alta frequenza e la violenza di tali “figli” è dovuta all’insolita forza della Depressione d’Islanda, forza generata dal contrasto fra la bassa temperatura che caratterizza le acque del Nordatlantico (spece nei periodi tardo-autunnale, invernale e primaverile) e la straordinaria carica termica trasportata dalla Corrente del Golfo dovuta probabilmente ad un inconsueto aumento della sua portata idrica.
3) Sia la rotazione in senso antiorario dei vortici ciclonici che la rotazione in senso orario dei gorghi anticiclonici sono caratteristiche dell’Emisfero Nord, mentre nell’Emisfero Sud i sensi di rotazione si inverrtono.
4)  Al pari dei gorghi che si formano nell’acqua, questo tipo di vortice anticiclonico presenta un’area centrale ben definita, all’interno della quale la pressione atmosferica è massima, e una vasta area marginale grossomodo circolare, nel cui ambito la pressione diminuisce gradualmente fin sulle fasce di confine con le aree depressionarie, alle quali fornisce l’aria che quelle attraggono
.5) Poiché l’umidità dell’aria è direttamente proporzionale alla temperatura ed alla pressione dell’aria stessa, alle quote elevate, dove la pressione atmosferica e la temperatura sono molto basse, l’umidità dell’aria è minima.
6) E questo spiega perché, in assenza di tali condizioni, le perturbazioni atlantiche possano entrare tanto facilmente nel Bacino Mediterraneo e flagellare con così inusitata frequenza le nostre regioni.
 
[Scarica l’opuscolo:  CLIMA 1  (PDF 0,4 MByte)

Il disco di Rosà

Disco di Rosàà

Disco di Rosà

 

Negli anni novanta del secolo scorso, destò scalpore la pubblicazione dello studio su una mappa della Penisola Iberica disegnata su papiro: «Un documento con la più antica mappa giunto sino a noi!» titolava un quotidiano nazionale, e giù parole su parole per dire, alla fine, che si trattava di un papiro di età ellenistica databile, sembra, nientemeno che al primo secolo avanti Cristo…
Bazzecole!… In Territorio Vicentino, infatti, c’è ben altro… e molto più antico!
Dopo la snervante attesa di anni ed anni dal rinvenimento dello straordinario Di-sco di età venetica, durante i quali non fu possibile ottenere alcuna informazione su di esso, un libro sulla storia di Rosà edito dallo stesso Comune pubblicava una bella fotografia del prezioso reperto, fotografia che mi permetteva (finalmente!) di studiarne le caratteristiche e di formulare delle ipotesi sul significato della sua singolare decorazione.
Così, il 2 settembre 1999, Il Giornale di Vicenza pubblicava la parte preliminare del mio studio riguardante una interpretazione non convenzionale del Disco alla luce non dei soliti accostamenti della Cultura Venetica con quella classica greco-romana ma con le culture celto-germaniche, e ciò perché, a detta di Polibio, per costumi e cultura i Veneti apparivano in tutto simili ai Celti, dai quali si distinguevano solo per la lingua.
Poi, nel 2001, vedeva finalmente la luce l’opuscolo contenente lo studio completo, comprendente anche il raffronto con l’Arte Classica greco-romana e con quella del Vicino Oriente. In tal modo, il mio studio sul Disco di Rosà assumeva la veste definitiva… quella stessa che ho il piacere di presentare in questa sede.
Va ricordato però che, tre anni dopo il mio opuscolo, nel 2004 veniva pubblicato lo studio ufficiale ad opera delle Istituzioni, alle cui argomentazioni replicavo con mie osservazioni pubblicate a più riprese sul Bollettino FAAV, l’organo di informazione interna della Federazione delle Associazioni di Archeologia del Veneto, osservazioni che hanno riscosso l’interesse di più di un Addetto ai Lavori e che mi appresto a riportare su questo Sito col titolo Precisazioni sul Disco di Rosà.

[Scarica l’opuscolo: Disco di Rosà(PDF 2,1 MByte)