Archivi autore: giannibassi

Refrontolo: dopo l’ennesima tragedia, bufera di polemiche e indagini

Valdagno 3 agosto 2014

«La Protezione Civile non ci ha avvertito del pericolo!» diceva il sindaco di Refrontolo (TV) intervistato dopo la tragedia abbattutasi sulla Sagra dei Òmeni, ed ora si cerca di capire come il fatto possa essere avvenuto. Ma c’è poco da dire: i Meteorologi avevano segnalato la possibile evenienza di temporali di forte intensità nella nostra Regione, dunque, data la situazione orografica dei luoghi in cui doveva avvenire la Sagra, era compito delle Autorità locali prendere i provvedimenti del caso… e questi non potevano che essere l’annullamento o il rinvio della manifestazione.
Si dirà che è troppo facile parlare col senno di poi, ma non è così, perché il luogo sembrava scelto apposta per provocare guai.
Innanzitutto, in caso di forte nubifragio, l’angustia della valle nella zona del Molinetto della Croda e il lieve dislivello fra il piazzale della festa ed il greto del torrente lasciavano facilmente intuire la possibilità di una esondazione, tuttavia, se il montare delle acque fosse avvenuto con la naturale gradualità, la gente avrebbe potuto mettersi agevolmente in salvo e non ci sarebbero state vittime.
La tragedia, invece, è avvenuta a causa di uno sbarramento di detriti trascinati a ridosso di un ponte situato poco a monte del luogo della festa, sbarramento che, dopo aver prodotto un piccolo lago artificiale, ha ceduto all’improvviso precipitando a valle i detriti e l’ingente massa d’acqua al seguito

Ponte San Paolo  (Vicenza)

Si noti, sullo sfondo, l’alta arcata del ponte di S.Michele, a Vicenza: costruito ai tempi della Serenissima, esso non ostacola assolutamente il deflusso delle piene, a differenza di ponte di S. Paolo, in primo piano, costruito solo un secolo fa.

Dunque, la causa prima della tragedia è il ponte che ha impedito il libero deflusso dei detriti trasportati dalla piena.
Sciagure di questo tipo non sono rare in Italia, e questo perché, a differenza di quanto accadeva nell’antichità, in cui i ponti erano costruiti con ampie arcate che non riducevano la sezione dell’alveo dei fiumi ma la superavano in ampiezza per garantire sempre il deflusso delle acque di piena e degli immancabili detriti, noi oggi costruiamo robusti ponti in cemento armato, le cui campate sono piazzate ad un livello più basso del ciglio degli argini per consentire alle strade di mantenersi piane, a livello campagna, evitando così la bruttura delle rampe alle due estremità del ponte.
In tal modo, però, noi riduciamo lo spazio attraverso il quale devono passare le acque di piena (che magari a monte erano agevolmente contenute dagli argini) e facilitiamo l’ingorgo dei detriti galleggianti che tale spazio riducono ulteriormente (quando non lo ostruiscono come nel caso in oggetto).

Infine, prendo lo spunto dalla foto dei ponti di Vicenza per parlare del vecchio ponte detto di Pusterla, il quale presenta due grandi arcate che sostengono un piano stradale caratterizzato da due rampe piuttosto pronunciate, tanto che per secoli le piene sono passate sotto di esso senza procurare danni…
Questo fino a qualche anno fa, quando la spinta prodotta da una piena straordinaria sembra che abbia recato qualche dissesto nella struttura del manufatto minacciandone la stabilità.
Ebbene, certo su consiglio di tecnici qualificati, l’Amministrazione comunale è corsa subito ai ripari facendo eseguire una poderosa opera di rafforzamento della sede stradale tesa ad irrigidire l’intera struttura al fine di rafforzarne la resistenza alla spinta delle piene, e questo senza chiedersi il perché del pericoloso evento!
Se qualcuno si fosse rivolto quella domanda, forse avrebbe ottenuto questa risposta: «Le piene straordinarie non hanno un perché: càpitano e basta! »
Risposta errata!… Le piene straordinarie càpitano quando càpitano ma fanno danni solo quando l’alveo del fiume non è in grado di contenerle… E questo è proprio il caso del ponte di Pusterla.

Ponte Pusterla (Vicenza)

All’ex mulino che si vede sullo sfondo corrisponde, sulla riva opposta, la presa d’acqua e la ruota di un altro ex mulino, entrambi funzionanti un tempo grazie alla grande briglia visibile nella foto, esattamente come avviene poco a monte del ponte. La briglia in foto rialza il piano di scorrimento delle acque di almeno 2 m.

Premesso che le piene eccezionali sono dovute a precipitazioni eccezionali (e queste aumentano di intensità col riscaldamento del clima), ricordiamo che quando l’alveo del Bacchiglione fu alterato dalla costruzione, forse un secolo fa, di due ampie briglie (una a monte ed una a valle del ponte per convogliare l’acqua verso le ruote dei mulini attivi un tempo sulle due sponde ma inattivi già da molti anni) evidentemente il clima non era ancora giunto ai livelli estremi attuali, tuttavia, le piene, che si sono susseguite a ritmo crescente negli ultimi anni, avrebbero dovuto allertare le autorità e indurle a chiedersi se non fosse il caso di eliminare almeno la parte centrale della briglia a valle ormai in disuso da molti decenni, per consentire di abbassare forse di due metri l’alveo sotto le arcate del ponte riportandolo ai livelli originari, cosa che, visto l’andamento del clima, sarebbe consigliabile fare anche se l’emergenza sembra ormai passata.

 


Valdagno 7 agosto 2014

Nei giorni successivi alla tragedia di Refrontolo, gli Amministratori locali hanno mostrato, documenti alla mano, che l’intera valle a monte del Molinetto della Croda era stata dichiarata dai Geologi esente da rischio idrogeologico.

Se per “rischio idrogeologico” si intende “pericolo di frane e smottamenti dovuti a cedimenti strutturali della montagna”, a giudicare dalla tipologia e dalla giacitura degli strati rocciosi della zona quella dichiarazione dei tecnici appare corretta.

Tuttavia, la ristrettezza della gola in cui è avvenuta la tragedia lascia intendere che, grazie ai detriti alluvionali, in caso di piena il torrente assume una capacità di erosione notevole; capacità certo dovuta alla presenza, a monte del sito, di un “bacino imbrifero” di tali dimensioni da consentirgli, in caso di nubifragio, di raccogliere una quantità d’acqua e detriti potenzialmente molto pericolosa.

Ma i Geologi non sono Climatologi, così, evidentemente, di questo fatto essi non erano tenuti ad avere cognizione e non ne hanno tenuto conto, così come non ne hanno tenuto conto i Tecnici che hanno progettato il modesto viadotto a monte del Molinetto della Croda: quel ponte basso sull’acqua, che ha bloccato ramaglie, balle di fieno ed altri detriti, i quali hanno provocato la formazione di un lago, le cui acque di piena dapprima sono tracimate provocando l’innalzamento del torrente fino a superare di mezzo metro il piazzale della festa, allagando anche il capannone ma non allarmando le persone che anzi si sono perse a riprendere la scena (e fra queste anche i quattro che poi sono morti); poi, col cedimento improvviso dello sbarramento, la massa d’acqua e di detriti del laghetto a monte del ponte è precipitata travolgendo tutto: capannone con tutti gli arredi, automobili  e persone.

D’altra parte, benché il buon senso non dovrebbe mancare a degli Amministratori pratici della “fisiologia” del loro territorio, essi non sono tenuti a giudicare i pareri dei Tecnici: a scanso di responsabilità spiacevoli, infatti, ad essi basta adattare le loro scelte a detti pareri e poi metterli al sicuro in archivio, a futura memoria in caso di guai, proprio com’è avvenuto a Refrontolo!

Per evitare la tragedia, sarebbe forse bastato che qualcuno, pratico dei luoghi e dei problemi che possono derivare dai capricci del clima, avesse compreso che si stava innescando una trappola  mortale e avesse dato l’allarme: ho detto però forse, e questo perché spesso la folla in festa non bada agli allarmi se non quando è troppo tardi, spece se detti allarmi richiedono spiegazioni che non interessano ai gaudenti e se, come avviene di solito, sono lanciati da persone non autorevoli.

Da ciò, a mio parere, si comprende chiaramente quanto potrebbe essere utile la formazione, nell’ambito della Protezione Civile, di persone pratiche del territorio e preparate ad affrontare i vari problemi che potrebbero interessarlo: dunque, non individui specializzati (come i geologi, ad esempio), ché quelli non mancano certo nella nostra Regione, ma persone dotate di vaste conoscenze (non specialistiche) e di buon senso, capaci di lavorare in squadra e di collegare tra di loro fatti inerenti a diverse discipline scientifiche, al fine di farne una sintesi tesa a fornire una panoramica d’insieme delle situazioni di rischio, panoramica che la Protezione Civile Alpina, col prestigio derivante dalle benemerenze acquisite in anni di attività, potrebbe sottoporre all’attenzione delle Autorità con qualche non remota speranza di ottenere udienza.

Effetto serra? … Bah!

TerraLe cause reali delle mutazioni climatiche prospettive di controllo del clima

Negli ultimi anni “80, non trovando convincenti le argomentazioni dei sostenitori della teoria denominata “EFFETTO SERRA”, come mia consuetudine  affrontai lo studio dell’intera materia con approccio rigorosamente multidisciplinare.  Tale studio mi portò a conclusioni del tutto diverse da quelle proposte dagli studiosi, con i quali mi trovavo d’accordo solo per le preoccupazioni riguardo alla salute dell’ambiente, salute che mi è sempre stata a cuore fin da ragazzo.

Agli inizi del 1990 ebbi la fortuna di vedermi pubblicato sul Giornale di Vicenza un primo articolo (il 18 gennaio, data storica per me) al quale, sull’onda dell’interesse suscitato dalle mie argomentazioni, seguirono presto numerosi altri articoli, dei quali presento qui una sintesi spero chiara ed esauriente.

Scarica Articoli:

1. Cicloni e anticloni, gli scherzi della pressione atmosferica   (PDF 380 KByte)

2. Alle origini dei fenomeni climatici (PDF 380 KByte)

3. La scienza nel cassetto (PDF 380 KByte)

4. Risolto l’enigma delle correnti oceaniche (PDF 520 KByte)

5. Le correnti oceaniche secondarie (PDF 470 KByte)

6. Comprensori Climatici (PDF 220 KByte)

7. I fattori di disturbo del clima (PDF 225 KByte)

8. La genesi di deserti e uragani (PDF 400 KByte)

9. I disastri del Clima  (PDF 660 KByte)

10. Il controllo del clima: un’utopia? Forse no.  (PDF 460 KByte)

11. Effetto Serra farà rima con guerra?  (PDF 300 KByte)

12. Il clima e l’uomo: ciò che i libri di Storia non dicono  (PDF 480 KByte)

 

Quel che gl’italiani dovrebbero sapere in fatto di storia e di bandiere

Da tempo si fa un gran parlare di anniversari patriottici e del tricolore…
Ma sono discorsi seri?

Premessa 

Bandiera tricolore (bianco, rosso e verde) della RC, la Repubblica Cispadana  costituitasi in epoca napoleonica dal gennaio al luglio del 797). (da L’Alpino n. 2-2011, rivista dell’ANA, l’Associazione Nazionale Alpini )

Bandiera tricolore (bianco, rosso e verde) della RC, la Repubblica Cispadana costituitasi in epoca napoleonica dal gennaio al luglio del 797).
(da L’Alpino n. 2-2011, rivista dell’ANA, l’Associazione Nazionale Alpini )

Dire cose totalmente diverse o contrarie alla realtà costituisce una grave e inaccettabile menzogna… ma anche le “mezze verità” sono da condannare, poiché ad esse corrisponde sempre, inevitabilmente una “mezza menzogna”… ed anche questa è una cosa inaccettabile!
Ciò non ostante, la “mezza verità” è il sotterfugio più usato dai politicanti per fare apparire credibili le loro menzogne, in modo da carpire la fiducia del popolo, il cui consenso permette poi a loro di agire a proprio arbitrio nella gestione della cosa pubblica.
Sola difesa per i Cittadini è la ricerca della verità, ricerca però di difficile attuazione per le difficoltà nel reperimento di documentazione veramente obiettiva e perché i profondi condizionamenti culturali, subiti dal Cittadino in età scolare, lo fanno sicuro di saperne abbastanza e, di conseguenza, di non avere bisogno di ulteriori approfondimenti.
Un chiaro esempio della reale portata dei condizionamenti subiti dal Cittadino in età scolare è dato dal confronto fra il “poco” che riportano i testi scolastici di storia patria riguardo agli avvenimenti dell’epopea risorgimentale nella Regione Veneta ed il “molto” che tacciono, una significativa parte del quale è riportato fortunatamente nelle opere di alcuni rari autori come, ad esempio, nel XXIX volume della Storia d’Italia di Montanelli e Gervaso e nel ponderoso volume su Il Risorgimento Italiano di Cesare Giardini.(1)
Altre situazioni forse volutamente equivoche sono, come vedremo, quelle riguardanti le “celebrazioni per il centocinquantesimo anniversario dell’unità d’Italia” e “la storia della bandiera italiana”.

Equivoci e mezze verità

Come si è detto, una situazione alquanto equivoca, frutto certo di scarsa informazione e di disattenzione verso la realtà delle cose, è quella riguardante le tanto pubblicizzate celebrazioni per il cosidetto “centocinquantesimo” anniversario dell’unità d’Italia.
Se infatti, per “unità d’Italia” si intende l’unione di “tutte” le regioni del nostro Paese situate a sud delle Alpi, comprese cioè anche le tre Venetie (l’Euganea, la Tridentina e la Giulia) i conti non tornano.
Poiché infatti, il centocinquantesimo anniversario si riferisce alla data del 1861, delle due l’una: o le celebrazioni in oggetto non riguardano l’unità d’Italia ma un altro storico avvenimento, oppure con esse si vuole sancire una realtà storica di fatto, che farebbe storcere il naso a un mucchio di Italiani.
E il perché è presto detto.
L’unità d’Italia, cioè l’unificazione di “tutte” le regioni italiane sotto un’unica bandiera, non avvenne nel 1861, perché le tre Venetie erano ancora sotto dominio austriaco: infatti, la Venetia Euganea fu annessa all’Italia solo dopo la cosidetta terza guerra d’indipendenza, combattuta nel 1866 e persa dal Regno d’Italia su tutti i fronti di terra e sul mare ma fortunatamente stravinta dalla Prussia alleata dell’Italia, mentre la Venetia Giulia e la Tridentina furono annesse all’Italia solo nel 1918, dopo la grande guerra vinta finalmente dall’Italia e dai suoi alleati, vittoria però, che il Governo Italiano non seppe far valere sul tavolo della pace rassegnandosi anche troppo remissivamente a rinunciare alla Dalmazia che, pur essendo un territorio non compreso dalla cerchia alpina, era da sempre abitata da Genti Venete ed era appartenuta alla Repubblica di Venezia per quasi mille anni, fino al momento dell’invasione napoleonica della Venetia.
Essendo questa la situazione storica, se proprio si voleva festeggiare il centocinquantesimo anniversario di qualcosa, si doveva farlo commemorando la “nascita dello Stato Italiano”, Stato che fino a sessant’anni fa si chiamava “Regno d’Italia”.
Ma se proprio si insiste a voler festeggiare il centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia, ebbene, così sia…
Ma ricordiamoci bene: affermare coi festeggiamenti in corso, che l’unità d’Italia giunse a compimento nel 1861, significa prendere finalmente atto di una innegabile realtà storica, accettando la quale si proclama di fatto ufficialmente l’estraneità dei Veneti dal consesso delle popolazioni italiane.
E questo con somma gioia e soddisfazione di quanti fra i Veneti, e sono un’infinità, sognano la rinascita della Serenissima Repubblica di S. Marco.

Paradossi sul tricolore

Altro eclatante pasticcio, generato dalle mezze verità riportate da centocinquant’anni nei libri di scuola, è costituito dalla paradossale diatriba politica sorta fra i sostenitori e i detrattori della Bandiera Italiana.
Oggi infatti, i più accesi sostenitori della sacralità della bandiera italiana sono paradossalmente dei personaggi nati e cresciuti politicamente in un partito che, per decenni, nei suoi manifesti ha nascosto il Tricolore sotto una bandiera rossa con falce e martello, bandiera che costituiva il vessillo nazionale dell’Unione Sovietica…
Inoltre quei personaggi, che attualmente si atteggiano a strenui difensori dell’unità della patria italiana, sono gli stessi che, animati fino a vent’anni fa da un amore struggente verso la lontana “patria sovietica”, per decenni hanno combattuto l’idea del patriottismo verso l’Italia accusandolo di essere una deprecabile eredità del ventennio fascista!
Altrettanto paradossale appare l’avversione per la bandiera italiana espressa da vari esponenti politici “padani”: sull’esempio del loro “leader maximo” infatti, essi ignorano allegramente dei fatti storici, che dovrebbero invece indurli semmai a reclamare per la Padania l’uso esclusivo del Tricolore.
Il fatto è che i libri di scuola non dicono che la bandiera bianco-rossoverde nacque nel 1796 in Francia, con l’approvazione di Napoleone, quale vessillo delle legioni lombarda e italica che combattevano nell’armata napoleonica… e che fu per questo che, nel gennaio 1797, quel vessillo fu adottato come bandiera nazionale dalla Repubblica Cispadana… e non dicono nemmeno che, pochi mesi più tardi, nel luglio del 1797, quello stesso vessillo divenne la bandiera nazionale della neonata Repubblica Cisalpina, la quale, inglobata la Repubblica Cispadana, grazie all’incalzare delle vittorie napoleoniche raggiunse in breve le dimensioni di quella che oggi viene definita Padania.(2)
Di fatto, dunque, ben sessantatre anni prima del 1861 (anno in cui venne assunto come bandiera nazionale del neonato Regno d’Italia) il Tricolore fu la bandiera nazionale del primo Stato Padano della storia … e nulla toglie all’importanza della cosa il fatto che quello Stato non si chiamasse Repubblica Padana ma Repubblica Cisalpina, esattamente come nulla toglie all’importanza delle celebrazioni in corso il fatto che lo Stato Italiano, il cui nome attuale è “Repubblica Italiana”, fino a meno di settant’anni fa fosse chiamato Regno d’Italia.
Resta però lo stupore per l’avversione degli esponenti padani verso il Tricolore, loro primissima bandiera nazionale!

Infine, va ricordato che il tricolore non solo fu la bandiera del primo Stato Padano ma fu anche la bandiera della Repubblica di Venezia risorta con la rivolta della primavera del 1848 contro il dominio asburgico: il Governo Provvisorio della città infatti, assunse come bandiera nazionale il tricolore ornato con il  leone di S. Marco.  Il fatto che poi la Repubblica di Venezia abbia abbandonato questa bandiera non fu dovuto al rifiuto dell’ideale risorgimentale, ma fu la conseguenza del comportamento dell’armata piemontese, la quale, attestandosi inerte per mesi in riva al Mincio, si mosse solo dopo che gli eserciti austriaci ebbero completato il soffocamento nel sangue delle città venete di terraferma in rivolta, comportamento certo non dovuto ad un eccesso di amore verso i Fratelli delle Venetie ma fu dettato da uno spietato calcolo politico che spense nei Veneti l’anelito all’unità d’Italia.(3)

Tricolore (bianco, rosso e verde) con Leone di S. Marco adottato dalla Repubblica Veneta con decreto del 27 marzo 1848 emanato dal Governo Provvisorio della città di Venezia. (da Il Leone di San Marco - di G. Aldrighetti ed M. De Biasi, Venezia 1998)

Tricolore (bianco, rosso e verde) con Leone di S. Marco adottato dalla Repubblica Veneta (rinata a seguito della rivolta contro il dominio austrico) con decreto del 27 marzo 1848 emanato dal Governo Provvisorio della città di Venezia.
(da Il Leone di San Marco – di G. Aldrighetti ed M. De Biasi, Venezia 1998)


  1. Si veda, a questo proposito, “VENETI SU LA TESTA”, l’opuscolo che costituisce il numero 3 di questa serie di APPUNTI DI STORIA.
  2. Le informazioni e le date sulla bandiera italiana sono facilmente veri-ficabili nel DIZIONARIO ENCICLOPEDICO TRECCANI (ed. 1955) alle voci  bandiera, cisalpino e cispadano.
  3. Si veda in proposito l’opuscolo “Veneti su la testa”.

HALLOWEEN: TRADIZIONE CELTICA?… MACCHE’!

E’ piuttosto una montatura grossolana… per fare soldi!

mascheroniSotto il crescente influsso culturale proveniente da Oltreoceano, aumentano ogni anno di più gli eccessi comportamentali dei giovani (ma non sono pochi anche gli adulti che si adeguano a tale moda) messi in atto l’ultimo giorno di ottobre e nella notte del primo novembre, tanto che, sempre più spesso, le cronache riferiscono di sballi micidiali, danneggiamenti gratuiti e addirittura di feroci aggressioni, il tutto in un’atmosfera di crescente orrore sollecitata entusiasticamente dalle vetrine dei negozi addobbate con scheletri e maschere di teste umane in putrefazione avanzata, atmosfera animata poi da personaggi che spesso si muovono a gruppi per le vie cittadine camuffati in modo macabro da zombi più o meno putrefatti, i morti che camminano della tradizione wudu.
mostriIn una simile atmosfera, poi, sembra naturale che, forse per vincere lo schifo per la propria rivoltante acconciatura, qualcuno di quegli zombi si ubriachi e si droghi fin quasi a morirne e, purtroppo, sono sempre più frequenti le occasioni in cui quel quasi si annulla al punto, che qualche finto morto finisce davvero  all’obitorio!
E sono sempre più frequenti gli episodi, in cui la buffa minaccia espressa dalle parole “dolcetto o scherzetto” si trasforma in un tentativo di estorsione e, nei casi peggiori, in violenta aggressione.
Sapientemente promosso ed orchestrato da produttori di gadget e da negozianti privi di buon gusto interessati solo a fare cassetta, tutto questo rivoltante trambusto inscenato alla vigilia della tradizionale giornata del ricordo dei Defunti è presentato come un rituale di tradizione celtica, cosicché viene furbescamente spacciato per  manifestazione culturale.

Come appare dalle foto, è innegabile che, in un clima di apparente allegria, in tali manifestazioni il diavolo ci metta le corna

Come appare dalle foto, è innegabile che, in un clima di apparente allegria, in tali manifestazioni il diavolo ci metta le corna

Ebbene, questo tipo di manifestazioni, prodotte dall’oculata mescolanza dei sempre più diffusi (in Occidente) rituali satanici con gli aspetti più deteriori delle culture animiste portate in America dagli schiavi africani, come vedremo non ha nulla a che vedere con le civili tradizioni legate al culto dei morti comuni a tutti i popoli dell’antichità… e tanto meno ha attinenza con la tradizione celtica!
Questa affermazione così categorica è giustificata dall’autorevole testimonianza dello storico greco Polibio, secondo il quale, per usanze e costumi, gli antichi Veneti erano in tutto simili ai Celti, dai quali si distinguevano solo per la lingua.
Ebbene, se gli antichi Veneti praticavano culti simili a quelli dei Celti, per conoscere come questi ultimi ricordavano i loro Antenati basta andare a vedere quali erano le analoghe tradizioni funerarie venetiche.
Come è noto, i Veneti antichi hanno lasciato una notevole mole di testimonianze materiali riguardo alle loro credenze: in particolare, in una stipe rinvenuta a Vicenza, hanno lasciato numerose laminette votive in bronzo, alcune delle quali riguardano esplicitamente il culto dei morti, culto che nulla aveva in comune con le attuali, rivoltanti manifestazioni pseudo-folcloristiche di Halloween.
A sostegno di quanto vado dicendo, invito il Lettore a dare una scorsa all’articolo che segue, il quale espone con documentata chiarezza la sobrietà e la sorprendente diffusione delle modalità, con cui le antiche Popolazioni Venete e Celtiche ricordavano i loro defunti.
L’articolo riguarda un studio condotto in relazione alle insoddisfacenti interpretazioni fornite dagli Studiosi riguardo ad alcune laminette venetiche decorate con figure del tutto inusuali; così, avvalendomi dei confronti con documenti analoghi risalenti a varie epoche e provenienti anche da regioni lontane, giunto infine a conclusioni soddisfacenti, nel settembre 1982 pubblicai le mie idee sull’argomento col terzo opuscolo degli Appunti di Archeologia della FAAV (la Federazione delle Associazioni Archeologiche Venete) e successivamente, in data 12 giugno 1992, sulla pagina della Cultura de Il Giornale di Vicenza.
Bambini impauritiEbbene, data la crescente attualità dell’argomento, ritengo utile pubblicare detto studio anche su queste pagine, per sfrondare l’alone di pseudo-cultura col quale è proposto al Pubblico il rituale di Halloween, rituale che, come attesta la foto qui a lato, tratta da un sito web dedicato allo stesso argomento,  può produrre effetti traumatizzanti molto negativi sulla psiche dei bambini e delle persone immature in genere.

NB: tutte le foto presenti su questa pagina sono tratte dal sito “bing. com/images   immagini di Halloween”

 

Gianni Bassi:
CULTO DEGLI ANTENATI NELLE LAMINETTE PALEOVENETE DI VICENZA


Premessa

Fg 1: Laminetta votiva di età venetica rinvenuta a Vicenza decorata a sbalzo e incisione con una cosidetta processione di nudi (foto da. Paleoveneti di Vicenza. Ed. Com. di Vicenza).

Fg 1: Laminetta votiva di età venetica rinvenuta a Vicenza decorata a sbalzo e incisione con una cosidetta processione di nudi (foto da. Paleoveneti di Vicenza. Ed. Com. di Vicenza).

Negli anni ’50, durante lo scavo per la costruzione di un edificio presso piazzetta S. Giacomo, nel cuore di Vicenza, vennero alla luce circa duecento laminette in bronzo di età venetica databili, secondo gli esperti, intorno al V sec. A.C.
Buona parte delle laminette è ora custodita nel Museo Civico di Vicenza e le più balle sono esposte al pubblico corredate da ottimi ingrandimenti fotografici, che permettono di goderne appieno l’ornamentazione.

Fg 2: elemento di una processione di individui definiti Signorotti barbuti e paludati  (foto da Paleov. di Vicenza )

Fg 2: elemento di una processione di individui definiti Signorotti barbuti e paludati
(foto da Paleov. di Vicenza )

Le laminette, infatti, sono decorate con figurine sbalzate sommariamente ma chiaramente comprensibili, le quali danno una panoramica piuttosto vasta sui costumi della gente che viveva nella Regione Veneta duemilacinquecento anni fa.
In mezzo a tanto materiale interessante, spicca un certo numero di pezzi che fanno categoria a sé: essi, infatti, recano delle figurine straordinarie (fg 1), per le quali, se sarebbero fuori luogo i voli di fantasia degli scrittori di archeologia fantastica o di fantascienza, che in esse potrebbero vedere dei palombari o addirittura degli astronauti, è certo immotivata anche la superficialità con cui sono state trattate dagli Studiosi all’epoca del rinvenimento.
Tali laminette, infatti, costituiscono una testimonianza eccezionale in relazione ad un culto antichissimo, che affonda le proprie radici nella notte dei tempi.

Processione di nudi?

Fg 1a: particolare  (figure femminili a destra della lamina)  (dis. Gianni Bassi)

Fg 1a: particolare (figure femminili a destra della lamina)
(dis. Gianni Bassi)

Per niente impressionati dalla stranezza dei personaggi raffigurati su queste laminette, gli Studiosi li hanno semplicemente definiti nudi o processioni di nudi (1), così come hanno (in verità più propriamente) definito
processioni di guerrieri e processioni di donne numerosi altri gruppi di personaggi sbalzati in stile verista su altre laminette provenienti dallo stesso sito.
Tuttavia, poiché in alcune laminette la figura umana è resa in modo inconfondibile, come ad esempio nella laminetta con la teoria di signorotti barbuti (fg 2), le caratteristiche somatiche delle figurine simili a palombari non sono, a mio avviso, una semplificazione della figura umana ma la rappresentazione fedele di qualcos’altro.
Vediamo innanzitutto le caratteristiche di queste figurine misteriose (fg 1a): la testa è rotonda sormontata da una vistosa cresta di pennacchi e presenta, all’altezza degli occhi, una larga fessura orizzontale a forma di spicchio; il corpo è contrassegnato da attributi sessuali schematici ma inconfondibili; le braccia pendono lungo i fianchi e terminano in mani senza vita, come guanti vuoti; le gambe sembrano accennare un passo di danza, e questa impressione è rafforzata dalla vicinanza degli altri personaggi sbalzati nell’identico atteggiamento.

Sciolto l’enigma

Fg 3: pittura rupestre di età neolitica rinvenuta nel Tassili (Dis, Gianni Bassi)

Fg 3: pittura rupestre di età neolitica rinvenuta nel Tassili
(Dis, Gianni Bassi)

Una figura così singolare non doveva essere il frutto dell’imperizia dell’artista o dovuta al caso ma, soprattutto per la presenza della cresta di pennacchi, doveva al contrario avere un significato preciso e ben noto alla gente dell’epoca, anche se ai nostri occhi la cosa non appare evidente.
Ad avvalorare questa impressione è una figura pressoché identica, che appare nelle pitture rupestri del Tassili, nel deserto del Sahara (fg 3), la quale, però, è alquanto più antica delle nostre laminette, poiché gli Studiosi la attribuiscono al periodo Neolitico, dunque ad oltre quattromila anni fa: tale figura ha la stessa testa rotonda, gli stessi pennacchi, la stessa fessura per gli occhi e giganteggia quasi orizzontale su una scena di caccia di dimensioni piccolissime, su un arcere di dimensioni quasi pari alle sue e su altri due individui, due lottatori, (2) pure di analoghe dimensioni, tutti dotati di testa rotonda, priva però di pennacchi e di aperture di qualsiasi tipo. (3)
Il significato della grande figura con pennacchi è difficile da comprendere, ma il fatto che sia così diversa dalle altre, e soprattutto la sua posizione quasi orizzontale, sembrano definirla non appartenente al mondo dei vivi; tuttavia, l’atteggiamento del suo braccio, che sembra volersi intromettere nella contesa fra i due lottatori, lascia intendere che essa abbia il potere di intervenire nelle vicende umane: dunque, potrebbe trattarsi non di una semplice figura umana con testa rotonda, come è definita abitualmente, ma di una ben caratterizzata figura di divinità o di antenato.

Fg 4: Sciamano? Incisione rupestre della Val Camonica (dis, Gianni Bassi)

Fg 4: Sciamano? Incisione rupestre della Val Camonica
(dis. Gianni Bassi)

Tornando più vicini a noi nello spazio e nel tempo, troviamo un personaggio simile a quelli delle nostre laminette fra le migliaia di figure incise sulle rocce della Val Camonica: si tratta di un individuo dalla corporatura tozza caratterizzato dalla testa rotonda munita di vistosi pennacchi (fg 4) la quale, però, è priva della fessura all’altezza degli occhi. Tuttavia, data la rudimentale tecnica di esecuzione (basata sulla percussione della superfice rocciosa anziché sulla vera e propria incisione), la mancanza di questo elemento è comprensibile, giacché il personaggio è raffigurato in posizione frontale.
Il significato di questa figura non è chiaro, tuttavia, potrebbe essere indicato dall’atteggiamento delle braccia, disarmate e tese verso l’alto nella caratteristica posa del cosidetto orante.(4)  Anche questo individuo, dunque, sembrerebbe appartenere alla sfera spirituale dell’Uomo: forse si tratta di uno sciamano in atteggiamento di preghiera, oppure è una divinità o, ancora, un antenato, chissà?

Fg 5: Scena di compianto funebre su un vaso greco dell’VIII sec. A.C. (dis. Gianni Bassi)

Fg 5: Scena di compianto funebre su un vaso greco dell’VIII sec. A.C.
(dis. Gianni Bassi)

Che queste straordinarie figure possano essere la rappresentazione di qualche personaggio non appartenente al mondo dei vivi, è confermato da una scena funebre dipinta su un grande vaso greco decorato in tardo stile geometrico e risalente all’ottavo sec. a.C. (fg 5), nella quale appare un defunto disteso su un catafalco e attorniato da una folla di persone piangenti.
Di statura nettamente superiore a quella dei circostanti vivi, il morto, e solo lui, è caratterizzato da una cresta di pennacchi che parte dalla fronte e va fino alla nuca.
Finalmente, la cresta di pennacchi sulla testa assume un significato preciso, essa infatti ha una funzione pratica quale segno distintivo dei morti.(5)

Fg 6:  scena di naufragio su vaso greco tardogeometrico

Fg 6: scena di naufragio su vaso greco tardogeometrico

Tale funzione è confermata da un altro vaso greco tardo geometrico, che risale alla fine dell’VIII – inizi del VII secolo a.C. proveniente dalla colonia greca di Pitecussai (l’attuale isola di Ischia, fg 6).  Su tale vaso è raffigurata una scena che costituisce l’incubo dei naviganti, il naufragio: in essa infatti, appare una nave capovolta circondata dai corpi dei marinai affogati che fluttuano in mezzo ai pesci, uno dei quali si appresta a divorare un annegato.
Ebbene, tutti gli uomini (affogati e dunque “morti”) hanno sul capo una cresta di pennacchi!

Fg 8: scena di “estremo viaggio“ incisa su una stele dauna del  VI - V sec. a.C. (dis. Gianni Bassi)

Fg 8: scena di “estremo viaggio“ incisa su una stele dauna del VI – V sec. a.C.
(dis. Gianni Bassi)

Altra conferma ci viene da una stele funeraria della Daunia del VII – VI sec. A.C. (fg 7),  sulla quale è incisa una navicella che trasporta nel Regno dei Morti tre defunti o le loro anime, ed anche in questo caso i tre personaggi, raffigurati rozzamente con un viso appena abbozzato, recano sul capo la solita, inconfondibile cresta di pennacchi!…  Data la relativa vicinanza geografica e culturale dei Dauni (stanziati nella Puglia settentrionale) con gli antichi Veneti,(6) i tre personaggi della stele (anteriore alle laminette vicentine di solo un secolo) consentono di collegare anche le figurine misteriose delle nostre laminette al culto dei morti.
Rimano però ancora da spiegare la strana forma della testa, che trova riscontro solo nella pittura rupestre del Tassili (la quale, tuttavia, è più antica di ben duemila anni) e si differenzia nettamente dagli analoghi documenti quasi suoi contemporanei, quali le pitture sui vasi greci e le incisioni sulla stele dauna.

Dalla notte dei tempi ai giorni nostri

Fg 8: Danza rituale (attuale) legata al culto dei morti in una remota valle himalayana    (dis. Gianni Bassi da foto sulla rivista Airone)

Fg 8: Danza rituale (attuale) legata al culto dei morti in una remota valle himalayana
(dis. Gianni Bassi da foto sulla rivista Airone)

Una spiegazione, forse addirittura quella definitiva, sul significato delle misteriose figurine crestate sbalzate sulle laminette venetiche di Vicenza, ci viene da uno strano rito, significativamente legato al culto dei morti, rito praticato ancora ai nostri giorni da una piccola popolazione montanara, che vive isolata in una remota valle dell’Himalaia.(7)
Durante gli interminabili inverni imalaiani, infatti, quella popolazione si diletta con una infinità di feste e di cerimonie, in una delle quali appare una piccola processione di danzatori abbigliati in maniera straordinaria (fg 8): la loro testa è nascosta in un mascherone tondeggiante a forma di teschio, dalla cui bocca, formata da una fessura a forma di spicchio, i danzatori possono vedere all’esterno; il cranio è sormontato da una fila trasversale di creste vistose, mentre tutto il corpo è rivestito da una rudimentale tuta bianca attillata, le cui maniche terminano in larghi guanti flosci, vuoti di vita, mentre le brache si prolungano fino a coprire i piedi e terminano con grosse dita vuote. Sul busto e sulle ginocchia sono dipinte in rosso alcune ossa dello scheletro, un po’ come appare in una delle nostre laminette, in cui gli Studiosi pensano di vedere un tentativo, di studio anatomico.

Fg 9: Ricostruzione ideale dei danzatori raffigurati sulla laminetta venetica della fg. 1 (dis. Gianni Bassi)

Fg 9: Ricostruzione ideale dei danzatori raffigurati sulla laminetta venetica della fg. 1
(dis. Gianni Bassi)

Questi personaggi sono i “Tur-tod Dakpo”(8), il cui nome significa “Signori della città (o torre?) della Morte”, i quali, con la loro danza, esprimono le movenze della Morte, che miete le vite e getta le anime nel “Bardo”, un luogo in cui gli spiriti sosterebbero in attesa della loro destinazione definitiva, la quale verrebbe stabilita in base ai meriti acquisiti in vita.(9)
Osservando il profilo delle figure dei danzatori, appare evidente la loro perfetta somiglianza con la figura dei personaggi sbalzati sulla nostra laminetta, il cui significato, a mio avviso, ora è chiaro al dilà di ogni ragionevole dubbio: le nostre cosidette processioni di nudi sono in realtà processioni di danzatori abbigliati con mascheroni a forma di teschio piumato e impegnati in qualche cerimonia relativa al culto dei morti(10). (fg 9)
Tale tipo di cerimoniale, praticato già nel Neolitico (come attesta la pittura rupestre del Tassili),  ancora oggi ha una larghissima diffusione. Oltre che nella già citata valle imalajana, infatti, danzatori o figuranti che nascondono ogni parte del corpo sotto mascherature raffiguranti i defunti(11) si possono notare lungo le coste occidentali dell’Africa, come ad es. in Costa d’Avorio, presso la popolazione dei Kotò (fg 10) e nelle isole Canarie, dove si usa nascondere il volto con un fitto velo e le mani, spesso, addirittura con moderni guanti di gomma(12).
Tale usanza, ormai scomparsa da noi, ma della quale io serbo ancora il ricordo vivo dalla mia infanzia quando, alla vigilia del giorno dei morti, noi ragazzini ci divertivamo a ritagliare le zucche vuote, all’interno delle quali mettevamo un mozzicone di candela accesa, che al buio faceva risaltare i tratti della maschera (fg 11) sembra sia ancora praticata in varie località dei Paesi anglosassoni, e costituisce l’estremo ricordo di un rito universale dedicato agli Antenati, rito che affonda le proprie radici nella notte dei tempi.

Fg 11:  maschera ricavata da una zucca vuota con all’interno un lumino.

Fg 11:  maschera ricavata da una zucca vuota con all’interno un lumino

Fg 10: danzatore appartenente ad una popolazione attuale della Costa d’Avorio. (disegno di Gianni Bassi da foto su una rivista di antropologia)

Fg 10: danzatore appartenente ad una popolazione attuale della Costa d’Avorio. (disegno di Gianni Bassi da foto su una rivista di antropologia)

CONCLUSIONE

Come abbiamo visto, dunque, per quanto ci è dato sapere dalla iconografia venetica, nelle tradizioni degli antichi Veneti inerenti al culto dei morti non appare alcun particolare aspetto che possa far pensare al gusto del macabro e dell’orrido.
Di conseguenza, grazie alla testimonianza di Polibio, possiamo ritenere che nemmeno presso i Celti venissero praticati rituali dagli aspetti rivoltanti, come quelli che si vedono celebrati per le nostre strade nelle sere precedenti la giornata del ricordo dei Defunti.
Pertanto, possiamo affermare senza timore di smentite, che le macabre mascherate di Halloween, importate da oltre oceano e con tanto entusiastico impegno scimmiottate in Europa ai giorni nostri, nulla hanno a che vedere con la Cultura, ma costituiscono la realizzazione di una ben orchestrata operazione finanziaria finalizzata allo scardinamento dei valori tradizionali della nostra Socetà per favorire determinati commerci.
Commerci, che trovano mercato solo nell’oscurità e nel disordine.

 

  1. Da “Paleoveneti di Vicenza” ed. Comune di Vicenza 1963
  2. L’ipotesi, secondo cui i due individui sarebbero dei lottatori, è basata sul loro atteggiamento, che richiama quello dei lottatori dipinti nella tomba etrusca degli Àuguri, a Tarquinia.
  3. Anche in dipinti egizi di epoca predinastica appaiono figure simili.
  4. Gli “Oranti” sono personaggi raffigurati con le braccia sollevate a “U”, in atteggiamento ritenuto di preghiera. A volte, come in Val Camonica, di tali individui è raffigurato solo il busto (detto “busto di orante”) il quale, però, era forse già un ideogramma per indicare lo “spirito del defunto”.
  5. Nell’iconografia antica i defunti sono sempre riconoscibili: oltre che per la presenza di pennacchi sul capo, come appare dalle immagini espresse da numerose culture, altro indicatore di stato sono le fisionomie dei volti, le quali possono essere fortemente alterate o del tutto assenti, come appare nell’impugnatura in avorio del cosidetto Coltello di Gebel el Arab (alto Egitto) dove, tra una folla di combattenti perfettamente scolpiti in tutti i particolari, si distinguono due personaggi su una barca, la cui testa è senza volto a significare che sono le anime di due caduti imbarcate per l’Aldilà.
  6. Sembra ormai accertato il fatto, che Dauni e Veneti costituissero due diversi rami della medesima orda dei Cavalieri Nomadi (definiti così dagli Autori d’oltralpe) provenienti dalle pianure a Nord del Mar Nero, da cui furono cacciati dall’avanzata degli Sciti fra X e IX sec. A.C.
  7. La distanza di tempo e di spazio non deve impressionare, poiché gli Indoeuropei raggiunsero le falde meridionali dell’Himalaya già verso la fine del terzo millennio a.C. e l’influenza della loro presenza è attestata dal nome dell’immensa catena montuosa: Himalaya, infatti, deriva dalle parole “hiem”, che in latino significa “inverno”, e “palaja”, palazzo, a significare “Palazzo dell’inverno”, con chiaro riferimento alle nevi perenni che ne ricoprono le cime.
  8. Si noti l’affinità di Tur con la parola latina Turris e la germanica Turm, che significano entrambe Torre, e Tod, che significa morte anche in tedesco.
  9. Da: La danza dei monaci, articolo di Olga Ammann e Franz Aberham pubblicato sulla rivista Airone n. 31 pag 114.
  10. L’uso di maschere rituali a forma di teschio per raffigurare defunti o divinità dei morti è frequente in molte civiltà anche assolutamente estranee tra di loro, come nel caso della dea precolombiana Coatlique venerata oltre Atlantico.
  11. Presso gli Induisti, subito dopo la morte i defunti vengono avvolti in un telo che copre anche la testa; questa però viene stretta al collo con un laccio, che conferisce alla salma l’aspetto di una spece di bozzolo con la testa tondeggiante ben distinta dal corpo.
  12. Anche in Sardegna c’è un costume rituale che copre tutto il corpo (il viso è nascosto da una maschera dorata e le mani da guanti bianchi): si tratta

Arcobaleno: simbolo di pace?

Arcobaleno sul lago

Arcobaleno sul lago (si noti la sequenza col rosso sul profilo esterno e il violetto all’interno dell’arco)

In un lucido articolo sul Corriere della Sera del 27 marzo 2003, Ernesto Galli della Loggia osservava come la bandiera dell’arcobaleno, che sventola su tutti i cortei che percorrono le città italiane, rappresenti molto di più che una semplice bandiera della pace: essa, almeno in Italia, è la bandiera della nuova sinistra, il vessillo che sta soppiantando la bandiera rossa di un tempo.
Ma quale è il significato profondo del nuovo simbolo pacifista?
Si tratta, com’è noto, di una bandiera a bande colorate orizzontali che dovrebbero rappresentare l’arcobaleno, segno biblico di pace tra Dio e l’Uomo(1). Tuttavia, poiché i promotori del pacifismo sono, per dire il meno, del tutto aconfessionali, e poiché in quella bandiera i colori dell’arcobaleno sono stranamente riportati alla rovescia(2), viene il sospetto che il significato di quel simbolo sia ben diverso.
Non sarebbe questo il primo caso di rovesciamento dei simboli per rovesciarne il significato: i satanisti, ad esempio, usano rovesciare la croce, e non lo fanno certo per onorare il simbolo della Passione di Cristo!

LA REALTA’

In ogni caso, la scelta di quel simbolo non deriva certo dalla Bibbia: l’origine prossima pare risalire alla Società Teosofica, setta gnostica e orientaleggiante fondata nel 1875 da Helena Petrovna Blavatskij, una medium russa che si diceva portavoce di “potenze superiori occulte”, si considerava alfiere del socialismo internazionale e pretendeva di instaurare una super-religione della pace universale(3).
Molto più tardi, l’arcobaleno divenne simbolo della galassia settaria detta New Age, che annunciava la fine dell’era cristiana dei Pesci e l’avvento dell’era dell’Acquario, nella quale la pace dovrebbe essere prodotta dall’universale fratellanza anarchica ed ecumenica.
Nel 1978, l’arcobaleno fu ridisegnato rovesciato dall’artista Gilbert Baker quale simbolo del movimento omosessuale statunitense e, da allora, tale bandiera garrisce nello “storico” enclave gay in un quartiere di San Francisco.
E dal 2003, secondo il segretario del partito radicale dell’epoca, anche in Italia quella bandiera esprime la liberazione del movimento omosessuale(4).
Ben diverso dal falso arcobaleno pacifista è il vero arcobaleno biblico, il quale, come insegnava papa Pio X, già allora prefigurava il ruolo di Maria come mediatrice di pace tra Dio e l’Uomo: “In mezzo a questo diluvio di mali ci si presenta dinanzi agli occhi, simile all’arcobaleno, la Vergine clementissima, quasi arbitra di pace tra Dio e gli uomini: Pongo il mio arcobaleno nelle nubi, affinché sia il segno del patto che ho stipulato con la Terra (Gn. 9. 13). Imperversi pure la tempesta
e s’infoschi il cielo, ma nessuno se ne sgomenti. Alla vista di Maria, Dio si placherà e perdonerà: quando l’arcobaleno svetterà sulle nubi, io, guardandolo, mi ricorderò del patto sempiterno (gn. 9. 16)” (5).
“Il dono della pace è al centro della profezia di Fatima, in cui la Madonna afferma che il mondo è di fronte a un bivio cruciale: vi sarà pace solo se gli uomini si convertiranno e saranno esaudite le richieste del Cielo, comprendenti la consacrazione della Russia al Cuore di Maria e la comunione riparatrice nei primi cinque sabati del mese, altrimenti, la Russia diffonderà nel mondo i suoi errori, promuovendo guerre e persecuzioni alla Chiesa: «… i buoni saranno martirizzati, il Santo Padre dovrà soffrire molto, diverse nazioni saranno annientate, infine, il mio Cuore Immacolato trionferà! Il Santo Padre mi consacrerà la Russia, che si convertirà, e sarà concesso al mondo un periodo di pace». La Russia si è autodissolta ma i suoi errori si sono propagati nel mondo intero e oggi hanno un loro simbolo nell’arcobaleno pacifista, che proclama una pace senza giustizia e senza libertà. L’arcobaleno cristiano, il Regno di Maria profetizzato a Fatima, nasce invece, come ogni vera pace, dalla preghiera, dalla lotta contro satana e dal sacrificio”(6).
Recentemente, è apparsa in pubblico una variante della bandiera in oggetto, la quale presenta la fascia color violetto stranamente spostata fra il verde e l’azzurro: non vorrà per caso, tale modifica, simboleggiare il primo passo del disordine che seguirà il rovesciamento dei valori espresso dal rovesciamento dei colori dell’arcobaleno?


  1. Secondo l’Antico Testamento, dopo la punizione dell’Umanità corrotta a mezzo del diluvio universale, Dio avrebbe posto in celo l’arcobaleno quale segno di pace tra Sè e gli Uomini.   Come è noto (e facilmente verificabile) l’arcobaleno è formato da sette bande coi colori dell’iride, i quali sono prodotti dalla rifrazione della luce nel pulviscolo acqueo particolarmente denso nell’atmosfera dopo un forte temporale o sopra una cascata. La sequenza di detti colori è rigidamente e immutabilmente determinata dalla loro diversa lunghezza d’onda, pertanto, partendo dall’alto essi  sono: rosso, arancio, giallo, verde, azzurro, indaco e violetto; ai margini dell’arcobaleno, poi, ci sono le bande invisibili del-l’infrarosso (in alto) e dell’ultravioletto (in basso).
  2. Nella bandiera in oggetto, infatti, la posizione delle bande colorate è invertita, con il rosso posto alla base di tutta la serie.    Ovviamente, tale sequenza non ha nulla a che vedere con quanto avviene in natura (nell’ordine posto dal Creatore, secondo i Credenti) poiché, essendo la componente rossa della luce la meno deviata dalla rifrazione, essa si presenta sempre in alto, sul margine esterno dell’arco dell’iride, mentre la componente violetta, che presenta la massima deviazione, è situata forzatamente in basso, sul margine interno dell’arco.
  3. Storicamente, una bandiera arcobaleno fu usata nella Guerra dei contadini tedeschi nel XVI secolo come segno di una nuova era di speranza e cambiamento sociale. Le bandiere arcobaleno sono anche state usate per rappresentare il Tawantin Suyu o Territorio Inca, in Perù ed in Ecuador, e come simbolo del movimento Cooperativo; inoltre, sono state usate dallo Oblast autonomo ebraico e da alcune comunità di Drusi in Medio Oriente (da Vikipedia, Internet).
  4. Notizia riportata dal quotidiano Libero del 27 marzo 2003.
  5. Enciclica del 2 febbraio 1904 Ad diem illum laetissimum di San Pio X.
  6. Da Corrispondenza romana del 29 marzo 2003, n. 902.

 

Uragani, tifoni e affini: quando l’atmosfera dà i numeri

UraganoIl fenomeno che genera le grandi perturbazioni atmosferiche è costituito dal differenziale termico fra una determinata zona calda della superfice del pianeta e tutta la vasta area fresca circostante.
Poiché, infatti, la temperatura della superfice del pianeta influisce in modo determinante sulla temperatura dell’aria soprastante, questa si riscalda o si raffredda a seconda della temperatura del suolo.
In tal modo, l’aria a contatto con una superfice calda si riscalda a sua volta e ciò ne provoca la dilatazione rendendola più leggera(1) di quella fresca che la circonda.
A sua volta, quest’ultima, gravata dal proprio peso, si insinua facilmente sotto l’aria calda sollevandola dal suolo e dando così inizio al movimento ascensionale che è all’origine delle perturbazioni atmosferiche.
Perché l’innalzamento iniziale possa trasformarsi in un mulinello e poi in una tromba d’aria, che potenziandosi può trasformarsi in un tornado e infine in un uragano vero e proprio, occorre che l’aria interessata alle fasi iniziali del fenomeno contenga una certa scorta di energia termica…  scorta costituita dal calore contenuto nell’umidità dell’aria(2).
Ora, è bene ricordare che il contenuto di umidità nell’aria è direttamente proporzionale alla pressione ed alla temperatura dell’aria stessa.
Quando, infatti, l’aria si riscalda, aumenta la sua capacità di assorbire umidità dando così l’impressione che l’atmosfera sia limpida anche quando non è asciutta, mentre quando si raffredda, tale capacità diminuisce determinando la condensa del vapore, il quale fa apparire l’atmosfera di un biancore opaco.
A contatto col suolo freddo, poi, la condensa dà origine alla nebbia, mentre, in quota, essa origina le nuvole da cui poi si genera la pioggia.
Analoga sequenza si verifica con le variazioni di pressione dell’aria: se la pressione aumenta, infatti, aumenta anche la capacità dell’aria di assorbire umidità; al contrario, con la diminuzione della pressione, comincia la fase di condensa dell’umidità fino a giungere alla formazione della pioggia.
Benché generate entrambe dall’influenza della superfice del pianeta e benché in apparenza simili, fra le due sequenze esiste una differenza sostanziale: quando il contatto col suolo raffredda la bassa atmosfera, l’aria sottrae calore all’umidità, che così, priva di energia, è indotta a condensare rimanendo inerte, come nel caso della nebbia; al contrario, benché anche la diminuzione della pressione provochi la condensa dell’umidità, anziché diminuire, la temperatura dell’aria tende ad aumentare, e questo perché essa riceve il calore rilasciato dal vapore acqueo in addensamento: in tal modo, aumentando la sua temperatura, l’aria si dilata ulteriormente divenendo via via più leggera e ciò, oltre a favorire il suo innalzamento di quota, produce ulteriore rilascio di calore da parte dell’umidità residua a sua volta in fase di condensa…
Questo processo continua fino a che non si esaurisce l’energia termica fornita dalla condensa del vapore, energia tuttavia, che alla corrente ascensionale può essere fornita in quantità quasi illimitate da particolari condizioni presenti al suolo.
Quando, infatti, il moto ascensionale dell’aria è innescato dall’alta temperatura di una massa d’acqua molto profonda, il rimescolamento superficiale di questa, prodotto dalla perturbazione atmosferica, non porta a galla acqua fredda che potrebbe bloccare sul nascere la formazione del vortice(3) atmosferico, ma porta a galla altra acqua calda, che fornisce ulteriore energia termica all’intero processo(4).
« Bene – dirà qualcuno – ma come si spiega, allora, il fatto che gli uragani si abbattono ogni anno sui Caraibi e sui Paesi circostanti e non lungo la rotta della calda Corrente Brasiliana, benché questa, derivando dal ramo sud delle Corrente Equatoriale Atlantica, sia la gemella di quella che si insinua nel Golfo del Messico? »
La domanda è importante e merita una risposta precisa ed esauriente.
Come abbiamo visto all’inizio, il fattore che provoca le perturbazioni atmosferiche è il differenziale termico fra una determinata zona calda della superfice del pianeta e tutta la vasta area fresca circostante.
Ciò, ad esempio, è quanto avviene nel Nord Atlantico lungo il percorso della calda Corrente del Golfo, dove però ben difficilmente le perturbazioni si trasformano in uragani, e questo perché, pur se elevato, il differenziale termico fra superfice calda della corrente e quella fresca dell’oceano circostante non raggiunge mai il livello critico.
Tale livello non viene raggiunto nemmeno lungo le coste del Brasile, e questo perché in quell’area la superfice dell’oceano è fortemente riscaldata dal Sole tropicale.
Al largo del Mare dei Caraibi, invece, tale livello critico è superato per il sopraggiungere da Nord-Est delle fresche acque portate in zona della Corrente delle Canarie, acque, la cui temperatura contrasta in modo netto con quella del ramo Nord della Corrente Equatoriale Atlantica che si inoltra nei Caraibi.


  1. Il minore peso dell’aria calda è dovuta al fatto che, essendo essa meno densa rispetto all’aria fredda, a parità di volume essa contiene un numero nettamente inferiore di molecole, e dunque essa pesa meno.
  2. Come è noto, l’umidità dell’aria è costituita da vapore acqueo e questo è generato dal calore del Sole che, riscaldando l’acqua, la fa evaporare.
  3. Riguardo all’invorticamento delle masse d’aria spinte verso l’alto, la spiegazione del fenomeno richiederebbe uno spazio esorbitante per questa breve esposizione, cosicché, non essendo tale argomento essenziale per l’esposizione in corso, se ne rimanda la trattazione ad altro articolo.
  4. Ed è tale circostanza che spiega il verificarsi degli uragani solo lungo il corso terminale di alcune correnti oceaniche calde.

L’odissea nel mar Nero?

Ritratto di Omero maltrattato dal tempo e... dagli uomini (Museo di Belle Arti - Boston)

Ritratto di Omero maltrattato dal tempo e… dagli uomini (Museo di Belle Arti – Boston)

Quello che i Greci chiamavano Ponto Eusino sembrerebbe l’ambiente ideale per collocarvi i luoghi omerici
Sull’ubicazione dei luoghi omerici sono stati versati fiumi d’in-chiostro e questo perché, già in età classi-ca, gli stessi autori greci hanno proposto delle varianti basate su una situazione geografica riscontrata nei luoghi ai loro tempi, situazione che sembrava contraddire la descrizione degli stessi luoghi riportata nell’Odissea.
Ed è appunto da tali contraddizioni che prese origine il detto, secondo il quale “di tanto in tanto Omero dormicchia”.

[Scarica l’opuscolo: Odissea nel mar Nero?(PDF 1,3 MByte)

 

Realtà e fantasia nell’Arte e nel Mito

Toro Tricorno - piccola terrecotta del II-III sec. d.C. dalla necropoli gallo-romana di Cutry (F)

Toro Tricorno – piccola terrecotta del II-III sec. d.C. dalla necropoli gallo-romana di Cutry (F)

(Gruppo archeologico Val de l’Agno   – 2005)

PREMESSA

L’arte figurativa costituisce la più efficace ed antica forma di narrazione non orale, tuttavia, al pari della narrativa scritta vera e propria, essa è soggetta alle deformazioni prodotte più o meno volontariamente dall’autore nell’intento di rendere più gradevole o più comprensibile la sua opera.
Una conferma a tale tendenza ci viene dal medioevo, quando, stimolati dalla presenza di numerosi animali esotici a Palermo, presso la corte di Federico II di Svevia, a partire dal XIII secolo studiosi ed artisti cominciarono a produrre i  cosidetti bestiari, opere che poi, con l’invenzione della stampa, consentirono la diffusione in tutta Europa di immagini e notizie sugli animali più strani.
Chiaramente, questo splendido pachiderma è un rinoceronte ma la decorazione che lo ricopre ne fa un animale fantastico.

Questo splendido pachiderma è un rinoceronte ma la decorazione che lo ricopre ne fa un animale fantastico

Questo splendido pachiderma è un rinoceronte ma la decorazione che lo ricopre ne fa un animale fantastico

LA FANTASIA NELL’ARTE

L’aspetto di quelle creature, tuttavia, appariva generalmente come un incrocio fra timida realtà e fervida fantasia a causa del pesante condizionamento ad opera dell’imprescindibile (per quei tempi) eredità culturale lasciata dagli eruditi dell’antichità greca e romana e, il più  delle  volte,  a  causa  della mancata conoscenza diretta dei soggetti, alla quale gli artisti dovevano sopperire con la fantasia.
La consuetudine di abbellire la realtà con l’immaginazione si protrasse anche in tempi relativamente recenti, attestando l’irresistibile tendenza dell’Uomo ad adattare le situazioni reali al proprio modo di sentire.

Timpano Cividale - Animali adulti con cuccioli: bassorilievo su elemento architettonico di età longobarda a Cividale del Friuli. Si osservino i rinoceronti col corno sulla fronte anziché sul naso e, nei leoni, la bocca dal profilo a denti di sega e  gli enormi artigli a rastrello.         (dis. Gianni Bassi   1978)

Timpano Cividale – Animali adulti con cuccioli: bassorilievo su elemento architettonico di età longobarda a Cividale del Friuli. Si osservino i rinoceronti col corno sulla fronte anziché sul naso e, nei leoni, la bocca dal profilo a denti di sega e gli enormi artigli a rastrello. (dis. Gianni Bassi 1978)

Seguendo infatti una tradizione che affondava le radici nell’alto medioevo, l’opera degli artisti era condizionata dalla convinzione secondo la quale la raffigurazione degli animali doveva  rispettare determinati canoni quali ad esempio, la posizione delle corna sulla fronte come nei bovini, cosicché il corno del rinoceronte non poteva essere collocato sul naso ma vicino agli orecchi; poi, determinati particolari anatomici dovevano essere esaltati per illustrare le caratteristiche comportamentali delle belve, come nel caso della dentatura e degli artigli dei grossi carnivori.
Così, la stampa dei bestiari diede modo a torme di incisori di dare libero sfogo alla propria creatività producendo a volte autentici capolavori nell’arte grafica.

Pur se, come abbiamo visto, taluni esemplari di tali opere risultano assolutamente irriconoscibili, il più delle volte, come si è detto, la realtà non appare mai del tutto annullata dalla fantasia, così in genere si riesce a cogliere distintamente la natura del  modello ispiratore, purché, beninteso, si riesca a superare le congetture e le fumose disquisizioni dei dei critici d’arte, le quali costituiscono spesso delle autentiche barriere erette improvvidamente fra l’opera dell’artista ed il pubblico desideroso di capire.

Il pesce monaco e il pesce vescovo sono chiaramente frutto esclusivo della fantasia medievale.

Il pesce monaco e il pesce vescovo sono chiaramente frutto esclusivo della fantasia medievale.

Il modello originale doveva essere una giraffa, ma le corna da stambecco e la pelle a macchie anziché a chiazze la rendono irriconoscibile.

Il modello originale doveva essere una giraffa, ma le corna da stambecco e la pelle a macchie anziché a chiazze la rendono irriconoscibile.

LA FANTASIA NEGLI SCRITTI

Se questa innata tendenza a modificare a proprio agio od abbellire le cose è chiaramente percepibile nell’arte figurativa, non sempre si riesce a coglierla compiutamente nella narrativa scritta, poiché, se i discorsi sono ben congegnati, in tale ambito è possibile dire tutto e il contrario di tutto.
Un chiaro esempio in proposito è dato dall’Odissea, il poema cosidetto omerico, in cui sono narrate le peripezie che per dieci anni impedirono il ritorno a casa di Ulisse.

Odisseo ospite di Circe. Fuorviante ricostruzione ambientale dell'episodio omerico proposta da un testo scolastico degli anni cinquanta del '900.

Odisseo ospite di Circe. Fuorviante ricostruzione ambientale dell’episodio omerico proposta da un testo scolastico degli anni cinquanta del ‘900.

Sull’ubicazione delle località in cui avrebbero avuto luogo le disavventure di Odisseo sono state pubblicate montagne di studi, nei quali le tappe delle peregrinazioni dell’eroe sono state immaginate ovunque, persino lungo le coste della Scandinavia, ma senza giungere mai a risultati conclusivi.
A lungo andare, dunque, fra gli studiosi sembra essersi affermata la convinzione che i poemi omerici non abbiano alcuna collocazione precisa, poiché sarebbero il frutto della fantasia di diversi cantastorie attivi presso le corti dei principi greci durante il cosidetto medioevo ellenico, il periodo di forte arretramento culturale seguito all’invasione dorica della Grecia.

GLI SCETTICI

Di tale scetticismo è data prova nella premessa di una recentissima riedizione integrale dell’Odissea con testo italiano e greco, nella quale, con una certa ironia, si dice: «I periodi di navigazione che portano Odisseo avanti e indietro fra il mondo della realtà e il regno delle fate durano nove o diciotto giorni: con queste cifre tonde ricorrenti il poeta stesso ci chiede di non prenderlo troppo sul serio; ma le traversate e i naufragi sembrano talmente autentici che qualcuno non ha ancora smesso di tracciare sugli atlanti la rotta di Odisseo».

E allora viene da chiedersi se sia mai possibile che, in un periodo caratterizzato da piccole comunità chiuse in sè stesse (come avviene di regola nei secoli bui conseguenti al crollo delle grandi civiltà) delle narrazioni disarticolate, frutto della fantasia di singoli cantastorie isolati, abbiano potuto affermarsi contemporaneamente in tutta la vastissima area geografica di lingua greca, aggiustandosi poi l’una con l’altra fino a formare un insieme organico nei cosidetti  poemi omerici.
A mio avviso, la risposta è no, e questo perché, dalla storia della letteratura dei popoli antichi, risulta che i miti sono nati da fatti realmente accaduti e, in origine, ben noti a tutti, fatti che poi i cantastorie riportavano oralmente con grande fedeltà, poiché gli ascoltatori non tolleravano variazioni arbitrarie nella trama e nella collocazione geografica degli avvenimenti.
Pertanto, è assai probabile che l’Odissea abbia un fondamento storico preciso, e questo anche al di là della provata storicità della tragedia troiana da cui essa prendeva origine, tragedia che costituì il prologo alla dissoluzione dell’Impero Ittita ed alla scomparsa della Civiltà Micenea.
Le componenti storiche dell’Odissea, però, devono essere recuperate discernendole fra la massa delle meravigliose irruzioni della fantasia nel campo della realtà, irruzioni che, come abbiamo visto, si verificano in tutti i campi quando l’immagina-zione deve sopperire alla mancanza di informazioni dirette o documentate.
Per effettuare tale recupero, tuttavia, occorre innanzitutto dare fiducia ad Omero (o all’insieme di autori antichi che il nome di Omero rappresenta), poi è bene sgombrare il campo dall’ostico groviglio delle disquisizioni di carattere letterario stratificatesi e consolidatesi nel corso dei secoli (disquisizioni che, pur se pregevolissime dal punto di vista della critica letteraria, distolgono l’attenzione del ricercatore dai contenuti effettivi dell’o-pera); infine, bisogna considerare il testo omerico per quello che dice effettivamente e non per quello che, secondo altri, “il poeta forse o probabilmente o quasi certamente o di sicuro avrebbe voluto o non voluto dire”…

Ebbene, alla luce di tali considerazioni, ora possiamo affrontare la lettura dello studio che, tanto per cambiare, propone un’altra versione del mito sui cosidetti Luoghi Omerici.

Il suo titolo? Un grande interrogativo:

Situla di Alpago

Situla dell'Alpago

Situla dell’Alpago

QUANTI FRAINTENDIMENTI!

Fin dall’inizio (la situla è stata rinvenuta nel 2002) il ritrovamento di questo straordinario recipiente in lamina bronzea decorata a sbalzo di età venetica ha provocato qualche clamoroso fraintendimento, e questo non solo riguardo all’interpretazione della particolarissima sequenza delle scene sbalzate sulla sua parete, ma anche sulle circostanze e le modalità del suo rinvenimento e persino sul nome della località in cui il prezioso reperto è venuto alla luce.
Allora, prima di passare all’esame delle straordinarie raffigurazioni, e tralasciando i problemi inerenti alle modalità del rinvenimento che esulano dagli scopi del presente studio, affrontiamo l’enigma (se tale si può definire) costituito dall’interpretazione del nome della località, in cui è stata individuata “l’area cimiteriale in uso dal VII al V secolo a.C.“ da cui proviene detta situla.

[Scarica l’opuscolo: Situla dell’Alpago(PDF 1,4 MByte)

Credere o … non credere?

Per quanto ciascuno di noi possa essere convinto assertore di uno fra i due termini della domanda, prima o poi questo amletico quesito giunge a turbare i nostri sonni.
Qualcuno si chiederà quale attinenza possa avere un simile argomento col nostro programma di discussione della Scienza… la risposta ci viene dai discorsi di due valenti scienziati, le cui frequenti argomentazioni in proposito dimostrano che il nesso c’è, e forte.
Il quesito credere o non credere, infatti, doveva essere spesso presente nei pensieri di una famosa scienziata italiana scomparsa recentemente, la quale, forse per rafforzare dentro di sé le proprie convinzioni, nelle sue non rare comparse televisive non perdeva occasione di dichiararsi atea, senza peraltro (che io sappia) dare mai alcuna ragione a sostegno delle sue convinzioni benché, dato l’importanza della Fisica nella sua attività scientifica, di ragioni avrebbe forse potuto darne(1).
Resa, a mio avviso, simpatica per il suo spiccato accento toscano (pardon, toshano) mi infastidiva non poco, invece, l’insistenza su quella sua intima convinzione, che nulla aveva a che fare con i motivi della sua comparsa in TV, motivi legati appunto alla sua attività di studiosa.
Ma che senso aveva quel bisogno di manifestare in pubblico le proprie convinzioni riguardo ad una materia tanto personale e delicata?
Su posizioni diametralmente opposte, invece, si trova un altro notissimo studioso italiano, egli pure in là con gli anni ma, per sua fortuna, ancora ben presente in questa valle di lacrime e anch’egli legato al mondo della Fisica.
In una recente intervista rilasciata ad un noto periodico di divulgazione scientifica, quello scienziato spiegava, o meglio, cercava di spiegare, le ragioni a sostegno della sua fede, ragioni di carattere filosofico e addirittura statistico (la maggiore quantità dei luminari credenti rispetto agli atei) espresse però con linguaggio specialistico certo non adatto a convincere.
Ebbene, se l’argomento credere o non credere viene trattato pubblicamente dagli Scienziati e se le loro argomentazioni sembrano non quadrare, mi sembra lecito trattare dell’argomento nel nostro blog Discutiamo la Scienza.
Tralasciando le affermazioni dei due luminari, le quali, contraddicendosi diametralmente, si escludono a vicenda, passiamo invece ad analizzare i fatti e, tanto per rimanere nel campo di attività dei due Scienziati, vediamo cosa dice la legge fondamentale della Fisica: ebbene, detta legge dice: in Natura, nulla si crea e nulla si distrugge, ma tutto si trasforma”…
Ora, noi non ci metteremo a indagare su quali e quante trasformazioni hanno subito la materia e l’energia: ci basta sapere che, dal momento che nulla si crea e nulla si distrugge, appare evidente che l’essenza di ciò che noi conosciamo come materia ed energia esiste da sempre e, se esiste da sempre, significa che si tratta di un qualcosa che è eterno.
In campo scientifico, sembra che parlare di eternità non abbia senso, tant’è vero che di essa non si sente mai parlare da parte dei Dotti, i quali preferiscono sorvolare sul mistero che essa rappresenta.
E su tale mistero rifiutano di riflettere sopratutto i sostenitori del non credere
Troppo comodo, amici! É qui che sta il nocciolo del quesito sul quale stiamo ragionando: se alla radice di tutto ciò che conosciamo c’è un principio eterno, il quale, evolvendosi innumerevoli volte e in modi infiniti, seguendo o meno un determinato processo razionale(2) è giunto ad offrire ai nostri sensi tutto ciò che conosciamo, significa che, se abbiamo un po’ di discernimento, dobbiamo passare al credere!
Ma credere a cosa?… o in che cosa?
La risposta dipende da come noi intendiamo immaginare il Principio Eterno (e a questo punto, data l’importanza fondamentale di tale definizione, dobbiamo scriverla in maiuscolo).
Vogliamo immaginarlo come un Immenso insieme di qualcosa di indefinibile? Allora possiamo continuare a chiamarlo Principio Eterno, benché tale definizione sia in contraddizione con sé stessa, perché la parola principio significa inizio, concetto che contrasta in modo insanabile con eterno, cosicché, messe insieme, le due parole costituiscono un mistero
Un Mistero che, anche se non riusciamo a comprenderlo, non possiamo negare!
Oppure, il Principio Eterno può essere chiamato Brahma, il Creatore, capo della Trimurti indiana, o Jahvè (Colui che è) il Creatore secondo la tradizione ebraica, oppure Odino o Wotan, il capo degli dèi germano-scandinavi, od ancora in cento altri modi, diversi eppure simili nel significato: l’Eterno da cui hanno preso Principio tutte le cose che esistono.
Da parte mia, io amo chiamarlo semplicemente Dio, il Creatore, e me lo immagino come l’ho disegnato nella figura che illustra l’articolo su C’è evoluzione ed evoluzione: un Vegliardo che dà disposizioni alle sue creature affinché tutto evolva secondo il suo provvidenziale progetto.
«Ma tutto questo – dirà stizzito qualcuno – non ha nulla da spartire con la Scienza!»
Ma siamo sicuri di questa perentoria esclusione?… No perché, vedete, la Scienza ha un modo tutto suo di trattare i misteri: non potendoli spiegare, o li nega, osteggiando talvolta anche brutalmente chi li sostiene, oppure, più elegantemente, li ignora come se non esistessero, oppure ancora, li nasconde dietro espressioni meno impegnative, come fa col concetto di Spazio infinito, che il filosofo Kant definisce “pura intuizione” poiché non è empiricamente percepibile, oppure, sorvolando distrattamente sull’attributo infinito, lo comprime all’interno di confini innaturali come fa con la definizione di Spazio euclideo!


  1. Com’è mia consuetudine, non dico mai il nome delle persone dalle cui argomentazioni io dissento, e ciò per correttezza verso le stesse persone, che non avrebbero modo, in questa sede, di ribattere alle mie osservazioni, e verso le quali nutro invece stima e gratitudine, poiché mi danno lo spunto per la verifica, stimolando l’approfondimento delle mie conoscenze.
  2. Vediamo in proposito gli articoli C’è evoluzione ed evoluzione e Alla ricerca dell’anello mancante presenti su questo stesso Blog nel settore Archeologia.